Intervista al ministro della Giustizia Andrea Orlando
È rivale dell’ex premier, ma non pentito del suo Sì al referendum. È antipopulista, ma non subalterno a Sergio Marchionne. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando è terzo per popolarità rispetto agli altri due candidati alla segreteria dei Democratici.
Ha detto che Renzi insegue la destra e che questo è drammatico. Non ho detto Renzi, ho detto la sinistra e che ciò accade da molti anni. Prima con l’ideologia del mercato, ora, talvolta, con un leaderismo estremo, con la politica fatta per slogan e la delegittimazione dell’avversario, più che con una legittimazione della propria proposta. Dobbiamo cambiare radicalmente, anche nei modi.
Che dovreste cambiare, lo si sente spesso. Cosa sul serio voglia dire, si capisce meno. Intende che il Pd di Renzi ha troppo flirtato con Marchionne?
Andavo più indietro negli anni, veramente. Fino ai Novanta, con la «terza via», o con il blairismo, quando pareva che compito della sinistra fosse quello di edulcorare un po’ le proposte degli altri, quando si avallava l’ottimismo sconsiderato sulla globalizzazione che avrebbe esteso, di per sé, diritti e benessere. Non mi pare sia andata così. Mi pare che interi pezzi di società siano protagoniste di una rivolta contro le istituzioni.
Il Pd, insomma, Renzi profeta, è egemonizzato da una visione destrorsa della politica.
Ma no, Renzi ha fatto anche cose di sinistra.
Per esempio?
La contestazione dell’austerity in Europa. Il limite è di non averla posta dentro una strategia rivendicata in modo esplicito.
Cioè?
Non aver detto che il punto centrale, oggi, è prendere di petto le distanze sociali e i temi della disuguaglianza.
È d’accordo che il ruolo politico della giustizia si erga come un muro contro ogni riformismo? Che l’Italia dei magistrati sia il vero blocco conservatore?
No. La giustizia ha molti limiti, costituisce anche un freno all’economia nel suo funzionamento civile e va resa più funzionale nel penale, ma non mi sento di dire che eserciti un blocco politico. Ha svolto talora un ruolo di supplenza di fronte a una politica che non si è assunta le sue responsabilità. Se la politica non sa rinnovare e costruire nuove classi dirigenti, nella società si fa largo il giustizialismo. E così è andata.
Non mi aspettavo una così strenua difesa delle toghe.
Dovevano sottrarsi di più al gioco di supplenza, e alcuni magistrati si sono sentiti giustizieri. Ma la crisi nasce dalla politica. Con grave danno del pro-
cesso penale che deve accertare fatti, non cambiare la società.
A dire che bisogna rivoltare l’Italia come un calzino parrebbe essere stato l’attuale capo dell’Associazione nazionale magistrati, Piercamillo Davigo.
Non avrebbe avuto il seguito che ha avuto, e non ci sarebbero state le manifestazioni osannanti davanti ai palazzi di giustizia, se la politica avesse saputo farsi carico delle domande di cambiamento.
Lei si propone al congresso come l’uomo che unisce e riunifica. Ma D’Alema, o Bersani, o Speranza, costituivano un partito nel partito. C’erano ormai, nel Pd, due visioni opposte della casa comune, e forse anche del mondo. A che pro tenerle unite a forza, al prezzo della verità?
Non metterei tutti nello stesso sacco. C’erano i pianificatori a freddo della scissione, e quelli che l’hanno subita. Ho dato da subito un giudizio molto negativo sulla scissione. Ho detto che avrebbe trasformato dei riformisti in radicali. Mi sembra sia quello che sta succedendo.
Non vedo i riformisti. Parla di quelli passati dal nostalgico al radicale?
Non mi preoccupano tanto loro quanto che, quando una forza politica si divide, sono migliaia e migliaia i delusi che si ritirano e si mettono alla finestra. Sa cosa succede quando qualcuno che se ne va mentre un altro bel pezzo resta a casa? Si perdono le elezioni.
Si vincerebbero tenendo nella stessa cuccia cani e gatti?
C’è stata indubbiamente un’involuzione pregiudiziale, ma non stiamo mica parlando di Amadeo Bordiga, sa? Le risulta che Bersani abbia mai proposto la nazionalizzazione dei mez- zi di produzione?
Ci mancherebbe. Solo la reintegrazione dell’articolo 18.
Qualunque cosa si pensi delle loro scelte recenti non si può dimenticare che quando la Cgil propose il referendum per l’estensione dell’articolo 18, gli allora Ds decisero di boicottarlo.
Oggi il contrario. Ma per quel poco, l’oggi conta.
La gestione del dibattito nel partito ha spinto a contrapposizioni ingessate. Prima non esistevano posizioni culturalmente incompatibili. Quelli che sono usciti non sono identificabili con le parole pronunciate negli ultimi mesi, che negano la loro storia.
Non vorrà mica far finta che quelle parole non siano state pronunciate.
No, e ho criticato chi le ha dette. Adesso voglio solo ricostruire un clima dove il confronto ritorni possibile e le differenze possano convivere.
Scusi, ministro Orlando, non pensa che esista un populismo di sinistra?
In che senso? Che come ne esiste uno di destra, sovranista e antiglobalizzazione, ce ne sia un altro che fa del welfare nazionale un totem, mentre il mondo va altrove. Non lo nego. Ma chiedo a lei: vorrebbe ricondurre posizioni simili a Bersani o a Pisapia?
L’intervistato non sono io.
Bersani e Pisapia hanno fatto i conti sui ruoli svolti con la modernità. La loro storia personale lo racconta. Chi inchioda persone così a un’immagine nostalgica, rinuncia a pensare. D’Alema ha guidato la coalizione Nato nella guerra del Kosovo; Bersani, da ministro, ha fatto le liberalizzazioni più importanti. Questo non toglie che oggi abbiano commesso un errore politico grave nel giudizio sul Partito democratico e, forse, sui cambiamenti della politica. Le diversità culturali, se permette, sono un’altra cosa.
Saranno caratteriali.