Panorama

Andrea Berton. Volevo fare lo sciatore, invece faccio lo slalom tra i fornelli

Sicuro di non poter diventare un campione sulla neve, Andrea Berton ha deciso di vincere in cucina. Nel libro di ricette in uscita, e in questa intervista, parla della sua storia di cuoco. E di come mai, nonostante il successo, si senta sempre al punto di

- di Terry Marocco

Sono di parere che il conoscere la vita di un uomo, anche dei più comuni come sarei io, possa riuscire di qualche giovamento agli altri e perciò mi sono deciso,

benché un po’ tardi, di scriver la mia». Questo è l’incipit dell’autobiogra­fia di Pellegrino Artusi, il guru della cucina italiana, il primo a inventarsi, a fine Ottocento, un manuale pratico per le famiglie, e si adatta perfettame­nte allo spirito con cui lo chef stellato Andrea Berton ha scritto il suo primo libro. Non è il solito brodo, appena uscito per Mondadori Electa (160 pagine, 35 euro), è il desiderio di raccontars­i e raccontare la propria cucina non per gloria, ma per guidare il lettore tra il bello e il buono del cibo. «Non è il classico libro di ricette per appassiona­ti, non è il solito brodo», scherza Berton nel suo celebrato ristorante milanese, essenziale e rigoroso come lui, aperto nel quartiere di Porta Nuova. «Ho voluto affiancare alle mie ricette storiche una versione per tutti, studiata per essere realizzata a casa». Tra un elaborato bonbon di baccalà, difficile da emulare, e una versione della parmigiana di melanzane realizzabi­le anche dai comuni mortali, Berton racconta l’avventura di un ragazzo che avrebbe voluto fare lo sciatore.

Come è passato dallo slalom sugli sci a quello tra i fornelli?

I miei genitori, che avevano un piccolo bar ristorante a Tarvisio, mi portavano spesso a mangiare fuori e allora non era una cosa usuale. Invece di stare seduto a tavola io mi mettevo davanti alla porta della cucina e spiavo gli uomini mentre lavoravano, mi piaceva la confusione, il frastuono dei piatti. Ero come il bambino di Nuovo Cinema Paradiso, ma con la cucina al posto dei film. È iniziata così la mia passione.

E dopo cosa è successo?

Volevo fare lo sciatore, ma ho capito che non ero abbastanza bravo per arrivare al vertice. A 19 anni parto dal Friuli per Milano e mi presento al ristorante di Gualtiero Marchesi.

Ha scelto la pista nera per iniziare.

Lo chef, un francese, ricordo ancora che si chiamava Adolfo, mi diede udienza per cinque minuti. La mise giù dura, non mi voleva, non avevo un curriculum, non mi conosceva nessuno.

Come riuscì a convincerl­o?

Un colpo di fortuna. Nella stanza entrò Marchesi, mi squadrò e disse :«Proviamolo, se non va bene lo rimandiamo a casa». Rimasi con lui tre anni e mezzo.

Cosa le ha insegnato il Maestro?

Il rispetto delle materie prime, che allora non era scontato. Per la prima volta vedevo in una cucina frigorifer­i diversi per carne e verdura. Alla fine degli anni Ottanta il suo ristorante in via Bonvesin de la Riva era il simbolo della cucina in Italia. Lì ho lavorato con grandi chef, oggi amici, come Carlo Cracco, Davide Oldani, Enrico Crippa, Ernst Knam.

LA MIA ATTENZIONE PER I RISOTTI È NATA QUANDO LAVORAVO NEL RISTORANTE DI GUALTIERO MARCHESI

Fu Cracco a convincerl­a ad andare all’Enoteca Pinchiorri. Come si trovò nel mitico ristorante di Firenze?

Annie Feolde e Giorgio Pinchiorri sono unici, sempre presenti, attenti a ogni dettaglio. Lei sa affrontare qualsiasi situazione con la massima profession­alità. Lui è la persona più preparata sui vini che io abbia mai conosciuto. L’Italia dovrebbe premiarlo per tutto quello che ha creato, in Francia sarebbe trattato come una divinità.

Cosa pensa della decisione di Cracco di lasciare la tv?

Ha fatto bene, ha sempre le idee chiare su come muoversi. Con Masterchef ha fatto conoscere il nostro mestiere, è stato maestro per molti giovani.

E lei da chi ha imparato di più?

Alain Ducasse. A Montecarlo a Le Louis XV dell’Hotel de Paris ho vissuto la mia esperienza più importante. È stato lui a farmi capire che esisteva anche lo chef-manager. Non si doveva vivere chiusi in cucina, ma creare sinergie, inventarsi nuovi posti, gestire cose diverse. Era esaltante guardarlo creare il suo impero. È un grande visionario, volevo essere come lui.

Si dice che fosse durissimo, specie con gli italiani.

Sono stati quattro anni impegnativ­i. Pretendeva grande precisione. Ma non ho mai pensato che stavo facendo dei sacrifici, era quello che volevo. Se avessi sentito la fatica anche per un solo istante, avrei mollato tutto.

Chi le ha trasmesso questa forza?

È il dna friulano che ho nel sangue, siamo granitici, tenaci.

Nel 1997 è di nuovo in Friuli, come fu il ritorno a casa?

Divenni executive chef della Taverna a Colloredo di Montalbano, in sei mesi conquistai la mia prima Stella Michelin. Ma il Friuli mi stava stretto, troppo chiuso per il mio carattere, non ho mai sentito il richiamo delle radici. L’unica città che mi fa stare bene e in cui credo è Milano.

Nel libro racconta il rapporto con sua moglie Sandra, che la «sopporta e supporta», come l’ha conquistat­a?

Le cucinai una cena a casa con 15 dei miei piatti. È una donna bellissima, glielo dicevano in molti, ma io l’ho sedotta con una frase: «Hai un palato fantastico».

Su cosa è capitolata?

Il mio risotto.

È arrivato in cima alla montagna, come voleva?

Sognavo di creare un posto dal nulla, che non avesse legami con il passato, dove ripartire. Così nel 2013 è nato Ristorante Berton, poi Dry e Pisacco e dallo scorso anno Berton al Lago, sul Lago di Como. Ma la vetta della montagna è ancora lontana. Dopo 25 anni mi sento sempre al punto di partenza.

 ??  ??
 ??  ??
 ??  ?? «Non è il solito brodo» (Mondadori Electa, 160 pagine, 35 euro), è il libro di Andrea Berton. A destra, lo chef nella cucina del suo ristorante milanese nel quartiere di Porta Nuova.
«Non è il solito brodo» (Mondadori Electa, 160 pagine, 35 euro), è il libro di Andrea Berton. A destra, lo chef nella cucina del suo ristorante milanese nel quartiere di Porta Nuova.
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy