Rivoluzionario Toscanini
Nasceva 150 anni fa il grande direttore d’orchestra. A lui si deve il rinnovamento del teatro lirico grazie a una visione che univa precisione, eleganza, semplicità. Lo celebra adesso una serie di iniziative. A partire da un prezioso volume illustrato. Ne
La stella di Arturo Toscanini iniziò a sorgere quando era ormai compiuto il cammino intrapreso dai grandi direttori della generazione precedente. Un processo di trasformazione che in pochi decenni aveva portato all’affermazione di un direttore unico in cui confluivano le mansioni prima svolte dal maestro concertatore e dal primo violino-direttore. Una figura che non aveva più l’obbligo di suonare uno strumento a tastiera o il violino durante l’esecuzione e che usava una bacchetta o comunque le mani per farsi intendere dagli esecutori, stando in piedi di fronte a loro. Una figura, infine, cui era affidato il compito di garantire il rispetto della volontà
dell’autore traducendola in suono al cospetto del pubblico. Alla fine di quel cammino si era ormai delineata una nuova figura professionale, talmente capace e autorevole da essere in grado di assumere la piena responsabilità dell’esecuzione, in tutti i suoi aspetti.
Di quella figura Toscanini divenne il modello per eccellenza, fin da quando, nel 1920, fu nominato «direttore plenipotenziario» del Teatro alla Scala di Milano, carica che comprendeva anche la responsabilità della riorganizzazione artistica e gestionale dell’ente. La novità fu percepita da tutti, al punto che molti ebbero la sensazione che grazie a lui la massima autorità musicale dell’epoca fosse per la prima volta un interprete e non un compositore, come invece sarebbe stato in passato. Toscanini era giunto a quell’invidiabile posizione dopo essere stato direttore stabile di tre grandi teatri: il Teatro Regio di Torino dal 1895 al 1898, il Teatro alla Scala dal 1898 al 1908, la Metropolitan opera company di New York dal 1908 al 1915.
La sua seconda chiamata alla Scala sarebbe invece avvenuta in una situazione radicalmente mutata rispetto alla precedente: nel 1920, infatti, il teatro assunse una nuova forma istituzionale che di fatto sanciva la fine dell’antico sistema di gestione impresariale su cui si reggevano da quasi trecento anni i teatri italiani. In quella nuova condizione, a Toscanini non spettava più solo la cura della parte musicale, ma veniva affidata la responsabilità della programmazione e della produzione: una posizione centrale del tutto inedita.
Di questa centralità fu compiuta espressione ciò che accadde in occasione della prima esecuzione di Turandot di Giacomo Puccini, rimasta rimasta incompiuta per la morte del compositore e andata in scena alla Scala (...). Forse nessun’altra prima rappresentazione è rimasta tanto strettamente legata al gesto di un interprete, nella fattispecie alle parole pronunciate
da Toscanini quando mise fine all’esecuzione nel punto in cui l’autore ne aveva interrotto la composizione: «Qui finisce l’opera lasciata incompiuta da Puccini per la sua morte».
Ma era comunque fuor di dubbio che il direttore dovesse, alla fine, essere il protagonista assoluto dell’evento, anche al di là della circostanza dolorosa che l’aveva privato della presenza del compositore. Avvalendosi delle sue prerogative, Toscanini si era infatti rifiutato di eseguire l’inno fascista in apertura di serata, nonostante fosse atteso l’arrivo in teatro di Mussolini.
Fu quella una decisione che nasceva dal rispetto assoluto delle ragioni della musica, che per Toscanini non dovevano essere esposte a condizionamenti e strumentalizzazioni di sorta, e anche dalla refrattarietà alle cerimonie ufficiali e alle manifestazioni della politica in particolare. (…).