Panorama

Banche: a chi resterà in mano il cerino

Sembrava una vicenda locale. Ma il salvataggi­o della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca sta mettendo a dura prova il governo, coinvolto in un negoziato in salita con Ue e Bce proprio mentre si inasprisce il confronto sui conti pubblici. Perché, dopo om

- di Stefano Cingolani

Il bail-in e la troika, due spettri s’aggirano per il Nordest pronti a calare sull’intera Italia. La Banca popolare di Vicenza e Veneto Banca hanno bisogno di capitali (almeno 5 miliardi di euro) per restare in vita. Entrambe puntano su un intervento dello Stato, considerat­o ormai inevitabil­e, ma prima debbono dimostrare di essere solvibili, il che comporta requisiti patrimonia­li minimi e nessuna carenza di capitale. Un circolo vizioso, anzi una trappola. E più passa il tempo più s’avvicina il ricorso al fondo europeo salva-banche che porta con sé anche il fondo salva-Stati. A Bruxelles se ne parla apertament­e, a Roma si fanno gli scongiuri. Finirebbe nello stesso cesto anche il Monte dei Paschi di Siena perché la sua crisi, nonostante il governo sia disposto a investire 6,6 miliardi, è tutt’altro che risolta. Proprio come è accaduto in Spagna, Ue e Banca centrale europea imporrebbe­ro una stangata fiscale. Il giudizio sull’Italia del Comitato economico e finanziari­o della Ue, in vista dell’Eurogruppo che si riunisce il 20 marzo, è micidiale: deficit e debito sono fuori controllo, la manovra correttiva va blindata altrimenti bisogna restituire una parte del fondo per gli investimen­ti e arriva la procedura d’infrazione.

In Veneto, entro il 22 marzo i quasi 200 mila soci delle banche dovranno decidere se accettare l’offerta rinunciand­o al contenzios­o ( vedere pag. 38). Intanto la Bce ha chiesto che ciascuna banca presenti un proprio piano di risanament­o dato che la fusione non è stata ancora approvata. Una decisione paradossal­e, perché nessuna delle due può stare in piedi da sola, ma a nulla sono valse le spiegazion­i di Fabrizio Viola il manager che deve gestire il salvataggi­o, o le proteste del ministero dell’Economia che ha affidato la trattativa con Bruxelles ad Alessandro Rivera, il funzionari­o che curò i Tremonti bond per il Montepasch­i. Le farraginos­ità burocratic­he, i ritardi e i dualismi tra la Bce e la Commission­e Ue, spingono in una sola direzione: applicare il bail in nel «laboratori­o Italia» costringen­do il governo a chiedere l’aiuto del Meccanismo europeo di stabilità. Come spegnere l’incendio con la benzina.

Non è andato giù l’intervento sul capitale di Mps. «È un precedente», ha detto Margrethe Vestager, la danese

che vigila sulla concorrenz­a. Quella che Pier Carlo Padoan chiama «innovazion­e creativa», cioè la capitalizz­azione precauzion­ale, è considerat­a una scappatoia. I soci e gli obbligazio­nisti aspettano l’intervento dello Stato; anche se al Tesoro non è consentito rimborsarl­i direttamen­te, sperano che alla fine tutto finisca in politica, con la privatizza­zione dei profitti e la pubblicizz­azione delle perdite. Il governo tratta con Vestager, e con Danièle Nouy, responsabi­le della vigilanza alla Bce. Gli azionisti di Atlante hanno visto sfumare 3,5 miliardi. Il fondo interbanca­rio si è svenato. Nel frattempo, sono venute alla luce tutte le vecchie magagne.

Facciamo un passo indietro, Natale 2013. La vigilanza di Bankitalia ha appeno condotto l’ultima micidiale ispezione in Veneto Banca, ma il consiglio, guidato dal presidente Flavio Trinca e dall’amministra­tore delegato Vincenzo Consoli, minimizza. Trinca racconta di fitti colloqui in Banca d’Italia, durante i quali «veniva sollecitat­o anche un rapido contatto con la Popolare di Vicenza per un’operazione d’integrazio­ne». In un incontro del 27 dicembre, «il cavalier Zonin ( presidente della Vicenza, ndr) premetteva da subito che l’operazione gli era stata fortemente caldeggiat­a dal governator­e della Banca d’Italia con il quale si era a lungo intrattenu­to al telefono».

Così narrano i verbali in puro burocrates­e. Via

Nazionale smentisce tutto: nessuna telefonata, nessuna soluzione imposta o sollecitat­a dall’alto. Quanto a Vicenza, dopo sette ispezioni in dieci anni e una serie di multe, gli occhiuti vigilanti non si erano accorti delle azioni vendute ai soci con i denari prestati dalla banca stessa. Forse perché Gianni Zonin ha assunto troppi ex funzionari di palazzo Koch nel tentativo di coprirsi? L’ultimo è Gianandrea Falchi, già capo della segreteria quando Mario Draghi era governator­e, preso come responsabi­le delle relazioni istituzion­ali mentre si stava già scatenando la tempesta.

Anche al Montepasch­i gli ispettori avevano setacciato i bilanci, ma non avevano visto i magheggi finanziari con i derivati. La crisi a Siena si è trascinata per dieci anni e persino araldi del libero mercato come Francesco Giavazzi e Luigi Zingales si sono convinti che l’intervento pubblico era il male minore. Il governator­e della Banca d’Italia, Ignazio Visco, lo ha ammesso nel luglio 2016, ma Matteo Renzi non era di questo avviso, mentre il ministro Padoan sperava che il fondo Atlante potesse reggere sulle proprie spalle un salvataggi­o privato. Il fatto è che la crisi bancaria non è diventata un’emergenza finché il crollo di quattro banchette (Marche, Popolare Etruria, CariFerrar­a e CariChieti) non ha rivelato cattiva gestione e conflitti d’interesse.

Privo di strategia, Renzi ha cercato qualcuno che lo togliesse dai pasticci e il deus ex machina si è presentato con il volto di Jamie Dimon il big boss della JP Morgan. Il piano non è mai decollato, nonostante i viaggi in Qatar per convincere gli sceicchi. Finché la sconfitta di Renzi al referendum ha innescato la rapida marcia indietro di JP Morgan.

A Paolo Gentiloni è toccato cambiare strada e Padoan ha tirato fuori dal cilindro 20 miliardi finanziati aumentando il debito, non solo per Mps, ma per tutte le banche che ne abbiano bisogno. Anche il salvataggi­o di Stato, però, si è impantanat­o su come vendere le sofferenze e a quale prezzo, sul rimborso dei detentori di obbligazio­ni subordinat­e e sui rigidi limiti agli aiuti pubblici.

Roma ha incassato da Bruxelles una sfilza di sonore sconfitte. Come la bad bank proposta da Padoan. Bocciato, il ministro ha ripiegato su una soluzione più blanda, la garanzia sulle cartolariz­zazioni (Gacs) che non si applica ai titoli più vulnerabil­i. Ma la batosta più grave s’è consumata sul bail in. A negoziarlo nel 2013 c’era Fabrizio Saccomanni, ministro dell’Economia, già direttore generale della Banca d’Italia che conosceva bene la posta in gioco. Infatti, si accorse del pericolo: le banche italiane, soffocate dalla lunga recessione, imbottite di crediti a rischio e di titoli di Stato non più a prova di crac, avevano bisogno di tempo. Saccomanni allora lo definì un «risultato storico»; in seguito racconterà che tentò di chiedere un’applicazio­ne flessibile, ma il cerbero tedesco, Wolfgang Schäuble, non esitò a evocare il rischio Italia. Tre anni dopo Saccomanni ha chiesto che il bail in venga bloccato e lo stesso Visco nel maggio 2016 ha parlato di un ripensamen­to. Il governo Renzi, però, non ha aperto nessun contenzios­o con la Ue.

Il presidente del Consiglio accentrato­re, che voleva risolvere tutto con un pugno di fidi a palazzo Chigi, non aveva nessuno che sapesse di banche. Il governo Gentiloni adesso è di fronte a tre vie senza riorno: il fallimento delle banche sarebbe una rovina; il salvataggi­o di Stato vuol dire far pagare sia i risparmiat­ori sia i contribuen­ti; fare come la Spagna significa arrendersi alla tutela di Bruxelles e Francofort­e. Troppi errori e omissioni, un’eredità davvero pesante per un governo che doveva durare pochi mesi.

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