Banche: a chi resterà in mano il cerino
Sembrava una vicenda locale. Ma il salvataggio della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca sta mettendo a dura prova il governo, coinvolto in un negoziato in salita con Ue e Bce proprio mentre si inasprisce il confronto sui conti pubblici. Perché, dopo om
Il bail-in e la troika, due spettri s’aggirano per il Nordest pronti a calare sull’intera Italia. La Banca popolare di Vicenza e Veneto Banca hanno bisogno di capitali (almeno 5 miliardi di euro) per restare in vita. Entrambe puntano su un intervento dello Stato, considerato ormai inevitabile, ma prima debbono dimostrare di essere solvibili, il che comporta requisiti patrimoniali minimi e nessuna carenza di capitale. Un circolo vizioso, anzi una trappola. E più passa il tempo più s’avvicina il ricorso al fondo europeo salva-banche che porta con sé anche il fondo salva-Stati. A Bruxelles se ne parla apertamente, a Roma si fanno gli scongiuri. Finirebbe nello stesso cesto anche il Monte dei Paschi di Siena perché la sua crisi, nonostante il governo sia disposto a investire 6,6 miliardi, è tutt’altro che risolta. Proprio come è accaduto in Spagna, Ue e Banca centrale europea imporrebbero una stangata fiscale. Il giudizio sull’Italia del Comitato economico e finanziario della Ue, in vista dell’Eurogruppo che si riunisce il 20 marzo, è micidiale: deficit e debito sono fuori controllo, la manovra correttiva va blindata altrimenti bisogna restituire una parte del fondo per gli investimenti e arriva la procedura d’infrazione.
In Veneto, entro il 22 marzo i quasi 200 mila soci delle banche dovranno decidere se accettare l’offerta rinunciando al contenzioso ( vedere pag. 38). Intanto la Bce ha chiesto che ciascuna banca presenti un proprio piano di risanamento dato che la fusione non è stata ancora approvata. Una decisione paradossale, perché nessuna delle due può stare in piedi da sola, ma a nulla sono valse le spiegazioni di Fabrizio Viola il manager che deve gestire il salvataggio, o le proteste del ministero dell’Economia che ha affidato la trattativa con Bruxelles ad Alessandro Rivera, il funzionario che curò i Tremonti bond per il Montepaschi. Le farraginosità burocratiche, i ritardi e i dualismi tra la Bce e la Commissione Ue, spingono in una sola direzione: applicare il bail in nel «laboratorio Italia» costringendo il governo a chiedere l’aiuto del Meccanismo europeo di stabilità. Come spegnere l’incendio con la benzina.
Non è andato giù l’intervento sul capitale di Mps. «È un precedente», ha detto Margrethe Vestager, la danese
che vigila sulla concorrenza. Quella che Pier Carlo Padoan chiama «innovazione creativa», cioè la capitalizzazione precauzionale, è considerata una scappatoia. I soci e gli obbligazionisti aspettano l’intervento dello Stato; anche se al Tesoro non è consentito rimborsarli direttamente, sperano che alla fine tutto finisca in politica, con la privatizzazione dei profitti e la pubblicizzazione delle perdite. Il governo tratta con Vestager, e con Danièle Nouy, responsabile della vigilanza alla Bce. Gli azionisti di Atlante hanno visto sfumare 3,5 miliardi. Il fondo interbancario si è svenato. Nel frattempo, sono venute alla luce tutte le vecchie magagne.
Facciamo un passo indietro, Natale 2013. La vigilanza di Bankitalia ha appeno condotto l’ultima micidiale ispezione in Veneto Banca, ma il consiglio, guidato dal presidente Flavio Trinca e dall’amministratore delegato Vincenzo Consoli, minimizza. Trinca racconta di fitti colloqui in Banca d’Italia, durante i quali «veniva sollecitato anche un rapido contatto con la Popolare di Vicenza per un’operazione d’integrazione». In un incontro del 27 dicembre, «il cavalier Zonin ( presidente della Vicenza, ndr) premetteva da subito che l’operazione gli era stata fortemente caldeggiata dal governatore della Banca d’Italia con il quale si era a lungo intrattenuto al telefono».
Così narrano i verbali in puro burocratese. Via
Nazionale smentisce tutto: nessuna telefonata, nessuna soluzione imposta o sollecitata dall’alto. Quanto a Vicenza, dopo sette ispezioni in dieci anni e una serie di multe, gli occhiuti vigilanti non si erano accorti delle azioni vendute ai soci con i denari prestati dalla banca stessa. Forse perché Gianni Zonin ha assunto troppi ex funzionari di palazzo Koch nel tentativo di coprirsi? L’ultimo è Gianandrea Falchi, già capo della segreteria quando Mario Draghi era governatore, preso come responsabile delle relazioni istituzionali mentre si stava già scatenando la tempesta.
Anche al Montepaschi gli ispettori avevano setacciato i bilanci, ma non avevano visto i magheggi finanziari con i derivati. La crisi a Siena si è trascinata per dieci anni e persino araldi del libero mercato come Francesco Giavazzi e Luigi Zingales si sono convinti che l’intervento pubblico era il male minore. Il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, lo ha ammesso nel luglio 2016, ma Matteo Renzi non era di questo avviso, mentre il ministro Padoan sperava che il fondo Atlante potesse reggere sulle proprie spalle un salvataggio privato. Il fatto è che la crisi bancaria non è diventata un’emergenza finché il crollo di quattro banchette (Marche, Popolare Etruria, CariFerrara e CariChieti) non ha rivelato cattiva gestione e conflitti d’interesse.
Privo di strategia, Renzi ha cercato qualcuno che lo togliesse dai pasticci e il deus ex machina si è presentato con il volto di Jamie Dimon il big boss della JP Morgan. Il piano non è mai decollato, nonostante i viaggi in Qatar per convincere gli sceicchi. Finché la sconfitta di Renzi al referendum ha innescato la rapida marcia indietro di JP Morgan.
A Paolo Gentiloni è toccato cambiare strada e Padoan ha tirato fuori dal cilindro 20 miliardi finanziati aumentando il debito, non solo per Mps, ma per tutte le banche che ne abbiano bisogno. Anche il salvataggio di Stato, però, si è impantanato su come vendere le sofferenze e a quale prezzo, sul rimborso dei detentori di obbligazioni subordinate e sui rigidi limiti agli aiuti pubblici.
Roma ha incassato da Bruxelles una sfilza di sonore sconfitte. Come la bad bank proposta da Padoan. Bocciato, il ministro ha ripiegato su una soluzione più blanda, la garanzia sulle cartolarizzazioni (Gacs) che non si applica ai titoli più vulnerabili. Ma la batosta più grave s’è consumata sul bail in. A negoziarlo nel 2013 c’era Fabrizio Saccomanni, ministro dell’Economia, già direttore generale della Banca d’Italia che conosceva bene la posta in gioco. Infatti, si accorse del pericolo: le banche italiane, soffocate dalla lunga recessione, imbottite di crediti a rischio e di titoli di Stato non più a prova di crac, avevano bisogno di tempo. Saccomanni allora lo definì un «risultato storico»; in seguito racconterà che tentò di chiedere un’applicazione flessibile, ma il cerbero tedesco, Wolfgang Schäuble, non esitò a evocare il rischio Italia. Tre anni dopo Saccomanni ha chiesto che il bail in venga bloccato e lo stesso Visco nel maggio 2016 ha parlato di un ripensamento. Il governo Renzi, però, non ha aperto nessun contenzioso con la Ue.
Il presidente del Consiglio accentratore, che voleva risolvere tutto con un pugno di fidi a palazzo Chigi, non aveva nessuno che sapesse di banche. Il governo Gentiloni adesso è di fronte a tre vie senza riorno: il fallimento delle banche sarebbe una rovina; il salvataggio di Stato vuol dire far pagare sia i risparmiatori sia i contribuenti; fare come la Spagna significa arrendersi alla tutela di Bruxelles e Francoforte. Troppi errori e omissioni, un’eredità davvero pesante per un governo che doveva durare pochi mesi.