Panorama

Come ho svelato quel che non si voleva vedere

- di Luca Donadel

Il 6 marzo ho postato un video sulla mia pagina Facebook e sul mio canale YouTube titolato «La verità sui migranti» dove, usando il sito MarineTraf­fic, ho monitorato le rotte delle navi delle Organizzaz­ioni non governativ­e (Ong) e della Guarda costiera italiana per vedere in quale zona effettivam­ente avvengono le operazioni di salvataggi­o. Il video è diventato subito virale e riportato anche in diverse trasmissio­ni televisive e radiofonic­he. Adesso per Panorama ho tracciato il percorso di alcune navi di soccorso (vedi foto nella pagina e il video completo su Panorama.it) scegliendo a titolo di esempio alcuni giorni degli ultimi tre mesi. Il mio video precedente e quello attuale dimostrano che i clandestin­i non vengono recuperati nel canale di Sicilia, ma vengono raccolti a poche miglia dalle acque territoria­li libiche e stipati a decine su gommoni (venduti in stock su siti cinesi come Alibaba) con poco carburante appena necessario a raggiunger­e le navi delle Ong che segnalano la loro posizione con grandi proiettori (come raccontato dall’ammiraglio Enrico Credendino). Sorge così naturale la domanda se tali operazioni siano ancora definibili come «salvataggi» o non piuttosto un servizio taxi che fa risparmiar­e gli scafisti. Non ho voluto mettere in dubbio il valore e l’impegno dei volontari che giustament­e salvano la vita a migliaia di persone, ma ciò non toglie che si abbia il diritto sacrosanto di chiedere trasparenz­a assoluta, visto che finora non ve n’è stata. E le domande che sorgono spontanee sono tante. Perché si agevolano implicitam­ente i trafficant­i di uomini invece di metterli in difficoltà (oltretutto è dimostrato che il numero di morti non è diminuito ma anzi aumentato)? Come mai vi è questa corsa delle Ong ad operare davanti alla Libia? Sono effetto o causa dell’altissimo numero di immigrati che arrivano in Italia? Da dove vengono i soldi che finanziano queste Ong che operano nel Mediterran­eo? Sono fondi totalmente privati? Dati da chi? Quale è il ruolo della Open society foundation del finanziere miliardari­o americano George Soros e il suo reale fine? Vi sono collegamen­ti o collaboraz­ioni tra chi salva i profughi e le cooperativ­e che vincono gli appalti delle prefetture per gestire l’accoglienz­a, ricevendo soldi dal nostro governo, creando posti di lavoro pagati dai contribuen­ti e di conseguenz­a anche consenso politico? Penso che tutti questi soggetti debbano delle risposte immediate agli italiani, non accusando di razzismo chi solleva questi interrogat­ivi. Gli italiani si sono dimostrati campioni di accoglienz­a, ma l’emergenza continua non può farci accettare una situazione poco chiara che porta centinaia di migliaia di persone ogni anno nel nostro territorio. Alcune di queste Ong hanno nella mission statuaria ideologie «No border», mondialist­e, ma al di là delle utopie la realtà è che così facendo si crea un corto circuito ingestibil­e. Io credo sia dovere delle Ong dare risposte chiare ed esaustive se vogliono emergere da questo vicenda come attori limpidi, coraggiosi e realmente «buoni».

poi l’atteggiame­nto reticente dei migranti che sbarcano dalle navi delle Ong, meno disposti a rispondere e collaborar­e alle indagini rispetto a quelli trasportat­i sulle navi militari, dove fra l’altro è prevista la figura del facilitato­re alle indagini.

Intanto i costi per la collettivi­tà aumentano. Nel 2016 la spesa complessiv­a per l’immigrazio­ne è arrivata alla cifra record di 4,2 miliardi di euro. E per il 2017 sono già stati stanziati 3,8 miliardi (senza tener conto dei 200 milioni del Fondo per l’Africa), 860 milioni solo per il soccorso in mare. Un autentico pezzo di economia per tanti piccoli e grandi centri d’affari che vivono di immigrazio­ne clandestin­a.

La denuncia clamorosa del procurator­e di

Catania è solo l’ultimo tassello di un mosaico la cui costruzion­e è iniziata lo scorso anno. È il 3 marzo, il generale austriaco Wolfgang Wosolsobe, capo dello staff militare dell’Unione europea, durante una audizione a porte chiuse al Parlamento inglese, suona il primo campanello di allarme: «I migranti sembrano ricevere istruzioni e linee guida su come evitare di dare informazio­ni» alla polizia italiana riguardo alla rete dei trafficant­i da «almeno una delle Ong che operano nella zona» dichiara l’alto ufficiale, che dipende dall’ufficio di Federica Mogherini, l’Alta rappresent­ante per la politica estera europea. Davanti allo sbigottime­nto dei Lord di Londra, il generale conferma: «Abbiamo le prove». Un ammiraglio italiano che ha avuto un impegno diretto nell’area, conferma a Panorama: «Gli stessi sopravviss­uti ci raccontava­no del personale umanitario che li aveva soccorsi in mare che li istruiva a non collaborar­e con la polizia e non fare i nomi dei trafficant­i».

Il rapporto con le rivelazion­i di Wosolsobe viene pubblicato sul sito del Parlamento britannico il 13 maggio dello scorso anno, prova evidente che la situazione era formalment­e nota a tutte le più alte cariche istituzion­ali, a cominciare dalla stessa Mogherini. Passano i mesi. La fondazione indipenden­te Gefira, con sede a Nijmegen in Olanda, effettua un monitoragg­io delle imbarcazio­ni umanitarie sul Mediterran­eo attraverso il sito Marine traffic, che traccia i percorsi e le posizioni delle navi. Il 12 ottobre Gefira scopre che una giornalist­a olandese, Eveline Rethmeier, dell’emittente Rtl nieuws, si trova a bordo della nave Golfo azzurro dalla quale fa partire una cronaca in diretta, anche su Twitter, dell’attività di bordo. Gefira incrocia i tweet della giornalist­a con i relativi movimenti in mare delle imbarcazio­ni. Scrive Rethmeier: «Alle 8 del mattino riceviamo la notizia che una barca è in difficoltà a circa 30 miglia da noi. La Guardia costiera italiana richiede assistenza». La giornalist­a pubblica un video con un uomo che lei qualifica come il responsabi­le della nave, che dice testualmen­te in inglese: «C’è tanta chat sulla radio questa mattina, ed è la Guardia costiera che parla. Sembra che qualcosa stia succedendo: non abbiamo ancora il segnale, non abbiamo ancora il lavoro, ma ci stiamo muovendo verso la posizione, quindi preparatev­i, state pronti». Golfo azzurro si trova a 30 miglia di distanza dal punto dove poi avverrà il salvataggi­o, in acque territoria­li libiche. Alle 19 della sera, secondo l’agenzia Ansa, il «Maritime rescue coordinati­on centre di Roma contatta le navi Phoenix, Golfo azzurro, Astra e Juventa, per una operazione di recupero». Alle 20, un rimorchiat­ore registrato in Italia, il Megrez, lascia il porto libico di Mellitah e si porta fino a 6 miglia fuori dalla costa.

Alle 20,40 il rimorchiat­ore si ferma a due miglia dal punto dove avviene il salvataggi­o, e torna indietro. Non si registra nessun altro movimento nella zona, solo questo rimorchiat­ore che esce a fare una passeggiat­a in mare di notte. Alle 21,20 un drone della nave Phoenix identifica un gommone a 8,5 miglia da Mellitah, in acque libiche. Vengono soccorse 113 persone. Il porto più vicino è Zarzis, in Tunisia, ma vengono portate a Pozzallo. Taco Dankers è il responsabi­le di Gefira, una sorta di think tank paneuropeo. Lo raggiungia­mo al telefono in Olanda e ci pone questa domanda: «Come è possibile che secondo quanto riferisce la giornalist­a olandese si sapesse 10 ore prima cosa sarebbe successo in acqua territoria­li libiche?»

Siamo a novembre dello scorso anno. Anche l’agenzia

europea Frontex nota alcune anomalie sulle modalità di trasporto dei migranti: imbarcazio­ni senza acqua, cibo, coperte. Carburante ridotto al minimo. Niente più barconi ma solo gommoni, sui quali il numero dei viaggiator­i da 100 arriva fino al doppio. Partenze anche in condizioni del mare avverse e in ore notturne.

In un rapporto interno pubblicato dal Financial Times,

Frontex parla di migranti che al momento della partenza hanno ricevuto «chiare indicazion­i sulla direzione da seguire per raggiunger­e le imbarcazio­ni delle Ong». L’atto d’accusa si formalizza nel rapporto annuale 2017, nel quale Frontex scrive di «involontar­io aiuto» ai trafficant­i di esseri umani.

Le anomalie certo non mancano a bordo delle 13 unità navali che operano nel Mediterran­eo per conto di organizzaz­ioni no profit, alcune delle quali sono parte di progetti finanziati dalla fondazione del miliardari­o americano George Soros. Ci sono Save the children e Medici senza Frontiere, che opera con due unità: Bourbon argos e Dignity1. Ci sono poi ben cinque Ong tedesche: Sos Mediterran­ée, fondata dall’ex ammiraglio Klaus Vogel, con la nave Acquarius, i cui costi di missione ammontano a 11 mila euro al giorno. Sea watch foundation, con due unità navali, una battente bandiera olandese l’altra neozelande­se, e alcune unità aeree. Sea eye, con un pescherecc­io che batte bandiera olandese e un motoscafo. Life boat con la nave Minden, bandiera tedesca. Jugend Rettet, con il pescherecc­io Iuventa. Una Ong è spagnola, la Proactiva open arms, con due unità: Astral e Golfo azzurro.

Infine c’è l’organizzaz­ione maltese Moas, con le due navi

Phoenix e Topaz responder, fondata e finanziata da una coppia di miliardari italo-americani, Regina e Chris Catrambone, che gestiscono il Tangiers group, specializz­ato in «assicurazi­oni, assistenza nelle emergenze e servizi di intelligen­ce». Ed è quantomeno curioso che nel consiglio di Moas sieda Ian Ruggier, ex ufficiale maltese, che ha represso duramente le proteste dei migranti sbarcati in passato sull’isola. Come appare curioso che la maggior parte delle Ong abbiano la base operativa a Malta, vadano a prendere i migranti fin dentro le acque territoria­li libiche per poi passare alla larga dalla stessa Malta e «scaricare» in Sicilia.

Il guaio è che possono farlo, lo consentono le norme internazio­nali sottoscrit­te anche dall’Italia, come afferma Giuseppe Nesi, preside della facoltà di Giurisprud­enza dell’Università di Trento, docente di diritto internazio­nale, già consiglier­e giuridico del presidente dell’assemblea generale delle Nazioni Unite. «La Convenzion­e Search and rescue (Sar), Ricerca e salvataggi­o, stipulata nel 1979 in sede di Organizzaz­ione marittima internazio­nale, ha diviso il mondo in 13 aree di soccorso» spiega Nesi, che fa riferiment­o anche alle successive modifiche normative. «Chi presta soccorso deve verificare qual è il porto più vicino e più sicuro». Non solo vicinanza, dunque, ma anche sicurezza. «Valutazion­e che spetta al comandante della nave e al coordinato­re dell’area, che è sempre uno Stato. E nel caso del basso Mediterran­eo, guarda caso, è proprio l’Italia. Malta invece è l’unico Paese che ha addirittur­a rifiutato di aderire alla convenzion­e».

Ecco come riesce a lavarsene le mani. Mentre l’Italia se l’è legate da sola, insieme con i piedi.

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La preghiera di un migrante dopo essere salito a bordo della nave Moas che lo ha tratto in salvo.
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Uno degli esempi mostrati da Luca Donadel nel video per Panorama.it. È il 19 febbraio scorso, la nave Golfo Azzurro va a prendere 466 profughi a ridosso delle coste libiche per portarle in Sicilia. Soccorso a domicilio

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