Da rottamatori a rottamati
La riforma della «Buona scuola» è fallita con l’accordo sindacale per una mobilità straordinaria di cui faranno le spese gli studenti. La cancellazione dei voucher irrigidisce nuovamente il mercato del lavoro. Mentre non decolla il riordino dei servizi al
La spinta propulsiva del renzismo sembra essersi esaurita con l’esito referendario dello scorso 4 dicembre sulla riforma costituzionale. Il piglio decisionista è stato sostituito dal tatticismo doroteo di un leader sempre più esitante e incerto. Sono ormai lontani quei momenti quando la sua azione di governo era consegnata all’epopea della «svolta buona», a cominciare da quelle due riforme che registrano ora il maggior grado di restaurazione.
Dopo la sollevazione contro la cosiddetta «Buona scuola», al ministero dell’Istruzione la tregua è stata sancita con l’accordo sindacale per una nuova mobilità straordinaria, che permetterà a migliaia di insegnanti di cambiare scuola nel tentativo di trovare posto vicino casa. A pagarne le conseguenze, sarà la qualità della scuola e la continuità didattica per moltissimi studenti, che ne hanno già visto avvicendarsi più di 200 mila nelle loro cattedre solo in questo anno scolastico. La pax sindacale potrebbe essere definitivamente siglata con l’accordo sulla «chiamata diretta», con cui potrebbero essere definiti criteri più stringenti per ridurre le possibilità del dirigente scolastico di scegliere gli insegnanti della propria scuola.
Con i decreti delegati, potrebbe infine arrivare un nuovo piano di stabilizzazione dei precari anche senza abilitazione, con almeno 36 mesi di servizio, nonostante ne siano stati immessi in ruolo quasi 100 mila con quel piano straordinario di assunzioni dell’anno scorso, a cui il ministero dell’Istruzione vorrebbe aggiungerne altri 25 mila e con il ministero delle Finanze disposto ad autorizzarne solo 9 mila, a dimostrazione che «supplentite» e precariato non sono ancora stati risolti.
Dopo aver cancellato il totem dell’articolo 18, che aveva condizionato tutte le precedenti riforme, l’evoluzione del Jobs act ha determinato anche la cancellazione dei voucher, al solo fine di evitare l’incubo di un altro referendum. La maggiore flessibilità in uscita è stata ulteriormente compensata da una minore flessibilità in entrata, irrigidendo complessivamente il mercato del lavoro. Terminati gli incentivi per i contratti a tempo indeterminato, tanto robusti quanto insostenibili per le finanze pubbliche, alle imprese e alle famiglie sono state ridotte le possibilità di usare strumenti trasparenti per soddisfare esigenze lavorative di carattere occasionale e accessorio. In questo modo, il Jobs act è stato fortemente ricondotto all’impianto della Riforma Fornero, che aveva già irrigidito i contratti di lavoro flessibili.
La restaurazione nel mercato del lavoro si aggiunge all’incapacità di attuare quella parte del Jobs act con cui era stato previsto il riordino dei servizi all’impiego e delle politiche attive. I centri per l’impiego non sono in grado di svolgere le funzioni affidate loro dal Jobs act e l’assegno per finanziare la ricollocazione dei disoccupati sul mercato del lavoro è appena partito in via sperimentale per soli 30 mila disoccupati su 700 mila destinatari potenziali, estratti a sorte con metodi statistici. Complessivamente, davvero poca cosa per la furia rottamatrice e per l’afflato riformatore di chi voleva far svoltare l’Italia.