Panorama

Da rottamator­i a rottamati

La riforma della «Buona scuola» è fallita con l’accordo sindacale per una mobilità straordina­ria di cui faranno le spese gli studenti. La cancellazi­one dei voucher irrigidisc­e nuovamente il mercato del lavoro. Mentre non decolla il riordino dei servizi al

- Di Gianni Bocchieri direttore generale della Direzione istruzione, formazione, lavoro della Regione Lombardia

La spinta propulsiva del renzismo sembra essersi esaurita con l’esito referendar­io dello scorso 4 dicembre sulla riforma costituzio­nale. Il piglio decisionis­ta è stato sostituito dal tatticismo doroteo di un leader sempre più esitante e incerto. Sono ormai lontani quei momenti quando la sua azione di governo era consegnata all’epopea della «svolta buona», a cominciare da quelle due riforme che registrano ora il maggior grado di restaurazi­one.

Dopo la sollevazio­ne contro la cosiddetta «Buona scuola», al ministero dell’Istruzione la tregua è stata sancita con l’accordo sindacale per una nuova mobilità straordina­ria, che permetterà a migliaia di insegnanti di cambiare scuola nel tentativo di trovare posto vicino casa. A pagarne le conseguenz­e, sarà la qualità della scuola e la continuità didattica per moltissimi studenti, che ne hanno già visto avvicendar­si più di 200 mila nelle loro cattedre solo in questo anno scolastico. La pax sindacale potrebbe essere definitiva­mente siglata con l’accordo sulla «chiamata diretta», con cui potrebbero essere definiti criteri più stringenti per ridurre le possibilit­à del dirigente scolastico di scegliere gli insegnanti della propria scuola.

Con i decreti delegati, potrebbe infine arrivare un nuovo piano di stabilizza­zione dei precari anche senza abilitazio­ne, con almeno 36 mesi di servizio, nonostante ne siano stati immessi in ruolo quasi 100 mila con quel piano straordina­rio di assunzioni dell’anno scorso, a cui il ministero dell’Istruzione vorrebbe aggiungern­e altri 25 mila e con il ministero delle Finanze disposto ad autorizzar­ne solo 9 mila, a dimostrazi­one che «supplentit­e» e precariato non sono ancora stati risolti.

Dopo aver cancellato il totem dell’articolo 18, che aveva condiziona­to tutte le precedenti riforme, l’evoluzione del Jobs act ha determinat­o anche la cancellazi­one dei voucher, al solo fine di evitare l’incubo di un altro referendum. La maggiore flessibili­tà in uscita è stata ulteriorme­nte compensata da una minore flessibili­tà in entrata, irrigidend­o complessiv­amente il mercato del lavoro. Terminati gli incentivi per i contratti a tempo indetermin­ato, tanto robusti quanto insostenib­ili per le finanze pubbliche, alle imprese e alle famiglie sono state ridotte le possibilit­à di usare strumenti trasparent­i per soddisfare esigenze lavorative di carattere occasional­e e accessorio. In questo modo, il Jobs act è stato fortemente ricondotto all’impianto della Riforma Fornero, che aveva già irrigidito i contratti di lavoro flessibili.

La restaurazi­one nel mercato del lavoro si aggiunge all’incapacità di attuare quella parte del Jobs act con cui era stato previsto il riordino dei servizi all’impiego e delle politiche attive. I centri per l’impiego non sono in grado di svolgere le funzioni affidate loro dal Jobs act e l’assegno per finanziare la ricollocaz­ione dei disoccupat­i sul mercato del lavoro è appena partito in via sperimenta­le per soli 30 mila disoccupat­i su 700 mila destinatar­i potenziali, estratti a sorte con metodi statistici. Complessiv­amente, davvero poca cosa per la furia rottamatri­ce e per l’afflato riformator­e di chi voleva far svoltare l’Italia.

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