Trump non faccia il gioco dei pasdaran
Con l’Isis che è in rotta a Mosul e l’imminente battaglia per Raqqa, si riapre il confronto fra Washington e Teheran. I presupposti sono pessimi, perché nel mirino di Donald Trump c’è l’accordo sul nucleare voluto da Obama. Eppure, la retorica incendiaria
Neppure il tempo di abituarsi al miglioramento delle relazioni fra Iran e Stati Uniti, dopo decenni di demonizzazioni reciproche, che la vittoria di Donald Trump ha riportato l’orologio geopolitico all’indietro. Teheran è così ritornata la più grande minaccia mondiale, che deve essere nuovamente isolata politicamente e economicamente. Qualcuno si scomoda anzi a riesumare il vecchio e fallimentare concetto di «regime change».
Il paradosso, tuttavia, sta nella contraddizione evidente fra la retorica anti-iraniana della nuova amministrazione Usa e le convergenze tattiche sul campo. Se Baghdad non è caduta in mano all’Isis, in questi anni, è soprattutto per merito delle milizie sciite addestrate dall’Iran, decisive per sconfiggere le milizie jihadiste. E oggi, nella battaglia di Mosul, è evidente il sostegno americano anche a quelle milizie, sempre più integrate nelle forze armate regolari irachene, sostenute e addestrate dagli americani. In Siria vi è un «gentlemen’s agreement» per tenere i filo-iraniani lontani dalla battaglia voluta da Washington per riconquistare Raqqa, mentre anche nel nord del Paese le mosse delle truppe curde, quelle sunnite filo-occidentali e quelle di Assad sono frutto di un laborioso coordinamento con Russia, Turchia e,
indirettamente, l’Iran.
È inoltre evidente che Trump, per combattere il terrorismo jihadista sunnita, si fida più della Russia (strettamente legata all’Iran) che dei suoi alleati storici, ossia turchi e sauditi (entrambi pesantemente coinvolti nell’ascesa dell’estremismo militante sunnita). Ma è una contraddizione negata dalla nuova amministrazione Usa, che usa anzi la retorica antiiraniana per riavvicinarsi a Israele e a Riad, dopo gli anni di «freddo» del secondo mandato Obama.
Obiettivo primario è ovviamente il Jcpoa, il compromesso nucleare raggiunto dopo più di un decennio di negoziati e formalizzato con il sostegno dell’Onu. Demonizzato ideologicamente dai repubblicani, nonostante sia un accordo bilanciato e non sfavorevole all’Occidente, è tuttavia impossibile abrogarlo unilateralmente e pericoloso violarlo senza giusta causa. La strategia che gli Usa sembrano voler adottare è quella di provocare la reazione iraniana, per ottenere il «casus belli» che possa portare alla sua sospensione.
Strategia scivolosa, in verità, che dipende sostanzialmente dall’atteggiamento di Teheran. Che ha alternato prudenze politiche a provocazioni militari nel Golfo, come a voler capire la nuova strategia del vecchio nemico. Ma tutto sommato, per i conservatori e i pasdaran (sempre più padroni del Paese) era più pericoloso l’Obama dalla mano tesa che un Trump minaccioso. A loro serve che la Repubblica islamica sia minacciata e sotto assedio, per giustificare la repressione di ogni dissenso e per bloccare le velleità di riforma dei moderati come il presidente Hassan Rouhani, favorito nelle elezioni del prossimo maggio.
Un Iran considerato «normale» dall’esterno faticherebbe a rimanere «eccezionale» all’interno, agli occhi di una società disamorata delle vuote retoriche di regime e che sogna un cambio di regime dall’interno, non violento e per gradi. Proprio l’opposto di quanto si possa ottenere riesumando i toni da guerra fredda e le minacce.