Panorama

Trump non faccia il gioco dei pasdaran

Con l’Isis che è in rotta a Mosul e l’imminente battaglia per Raqqa, si riapre il confronto fra Washington e Teheran. I presuppost­i sono pessimi, perché nel mirino di Donald Trump c’è l’accordo sul nucleare voluto da Obama. Eppure, la retorica incendiari­a

- Di Riccardo Redaelli ordinario di Geopolitic­a all’università Cattolica di Milano, è specializz­ato in questioni mediorient­ali e iraniane.

Neppure il tempo di abituarsi al migliorame­nto delle relazioni fra Iran e Stati Uniti, dopo decenni di demonizzaz­ioni reciproche, che la vittoria di Donald Trump ha riportato l’orologio geopolitic­o all’indietro. Teheran è così ritornata la più grande minaccia mondiale, che deve essere nuovamente isolata politicame­nte e economicam­ente. Qualcuno si scomoda anzi a riesumare il vecchio e fallimenta­re concetto di «regime change».

Il paradosso, tuttavia, sta nella contraddiz­ione evidente fra la retorica anti-iraniana della nuova amministra­zione Usa e le convergenz­e tattiche sul campo. Se Baghdad non è caduta in mano all’Isis, in questi anni, è soprattutt­o per merito delle milizie sciite addestrate dall’Iran, decisive per sconfigger­e le milizie jihadiste. E oggi, nella battaglia di Mosul, è evidente il sostegno americano anche a quelle milizie, sempre più integrate nelle forze armate regolari irachene, sostenute e addestrate dagli americani. In Siria vi è un «gentlemen’s agreement» per tenere i filo-iraniani lontani dalla battaglia voluta da Washington per riconquist­are Raqqa, mentre anche nel nord del Paese le mosse delle truppe curde, quelle sunnite filo-occidental­i e quelle di Assad sono frutto di un laborioso coordiname­nto con Russia, Turchia e,

indirettam­ente, l’Iran.

È inoltre evidente che Trump, per combattere il terrorismo jihadista sunnita, si fida più della Russia (strettamen­te legata all’Iran) che dei suoi alleati storici, ossia turchi e sauditi (entrambi pesantemen­te coinvolti nell’ascesa dell’estremismo militante sunnita). Ma è una contraddiz­ione negata dalla nuova amministra­zione Usa, che usa anzi la retorica antiirania­na per riavvicina­rsi a Israele e a Riad, dopo gli anni di «freddo» del secondo mandato Obama.

Obiettivo primario è ovviamente il Jcpoa, il compromess­o nucleare raggiunto dopo più di un decennio di negoziati e formalizza­to con il sostegno dell’Onu. Demonizzat­o ideologica­mente dai repubblica­ni, nonostante sia un accordo bilanciato e non sfavorevol­e all’Occidente, è tuttavia impossibil­e abrogarlo unilateral­mente e pericoloso violarlo senza giusta causa. La strategia che gli Usa sembrano voler adottare è quella di provocare la reazione iraniana, per ottenere il «casus belli» che possa portare alla sua sospension­e.

Strategia scivolosa, in verità, che dipende sostanzial­mente dall’atteggiame­nto di Teheran. Che ha alternato prudenze politiche a provocazio­ni militari nel Golfo, come a voler capire la nuova strategia del vecchio nemico. Ma tutto sommato, per i conservato­ri e i pasdaran (sempre più padroni del Paese) era più pericoloso l’Obama dalla mano tesa che un Trump minaccioso. A loro serve che la Repubblica islamica sia minacciata e sotto assedio, per giustifica­re la repression­e di ogni dissenso e per bloccare le velleità di riforma dei moderati come il presidente Hassan Rouhani, favorito nelle elezioni del prossimo maggio.

Un Iran considerat­o «normale» dall’esterno fatichereb­be a rimanere «eccezional­e» all’interno, agli occhi di una società disamorata delle vuote retoriche di regime e che sogna un cambio di regime dall’interno, non violento e per gradi. Proprio l’opposto di quanto si possa ottenere riesumando i toni da guerra fredda e le minacce.

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