Tutti i fronti aperti di Vladimir Putin
L’attentato terroristico nella metropolitana di San Pietroburgo di lunedi 3 aprile è solo l’ultima bufera che scuote la terra di Vladimir Putin ( foto). Oltre a fare i conti con la minaccia dell’estremismo islamico (innescata dalla presenza russa in Medio
Edire che sembrava primavera. Cambia in fretta il tempo in Russia. Basta un attimo e la bufera ti porta via. Vladimir Putin, pietroburghese, lo sa bene dopo la bomba esplosa il 3 aprile nella metropolitana della sua città, che si mostra solare e luminosa solo ai turisti delle Notti Bianche. Il presidente russo ne conosce ogni vicolo, buio e cupo. Ogni angolo. Ogni canale oscuro. Ha assaggiato la polvere che il vento alza e che si infila in bocca, ma anche la forza stoica della sua gente.
La sua presenza il 3 aprile nella Capitale degli zar era stata prevista con anticipo. Giornata spigolosa: un forum sui media e l’incontro con il ruvido leader bielorusso Aleksandr Lukashenko. Ma nell’agenda annunciata, mancava qualcosa: non c’era la passeggiata notturna con un fascio di rose rosse a Tecnologicheskij Institut, per portare omaggio ai 14 deceduti nella metropolitana il giorno della deflagrazione, lacerante e profonda, nelle viscere della città voluta da Pietro il Grande. Non c’erano gli interni in legno biondo, un po’ sovietici, delle stanze dove ha ascoltato la relazione dell’Intelligence sui primi risultati delle indagini, secondo cui il responsabile dell’attentato sarebbe un kamikaze di 22 anni originario del Kirghizistan. Non c’era neppure la premurosa telefonata del presidente americano: non più Barack Obama, ma Donald Trump, a dimostrazione che il tempo, non solo sul Baltico, può cambiare in fretta.
Putin non ha più il viso annoiato della conferenza stampa di dicembre 2016. Testa appoggiata alla mano e gomito sul tavolo, mentre ascoltava l’ennesima domanda, sazio del suo 80 per cento di popolarità: «Si deve essere proprio rotto, dopo 16 anni» aveva sussurrato più di un corrispondente a Mosca. Invece, nel giro di pochi mesi, l’uomo di Pietroburgo ha riacquistato l’espressione che meglio gli si confà: enigmatico più della Gioconda dinnanzi allo squarcio sublime e tragico dei tanti fronti aperti. Una scintilla gli è balenata nello sguardo il 30 marzo, in mezzo ai ghiacci dell’Artico, ad Arkhangelsk. Dal regno del freddo ha commentato le piazze russe infuocate dal vento caldo della protesta della domenica precedente. Qui niente «primavere arabe» ha detto, senza mai nominare il blogger Aleksey Navalny, ma sottotitolando per i più duri d’orecchio che la detenzione degli oppositori, a Mosca e in altre città russe, serve a evitare scenari simili alla «Maidan», le proteste di piazza in Ucraina che nel 2014 hanno portato allo spodestamento dell’allora presidente Viktor Yanukovich. Ridondante sarebbe stato aggiungere di non voler fare la stessa fine. Ma il senso era quello. E la lezione è: mai dare nulla per scontato tra le betulle.
Ogni piccolo frammento di quel potere immenso
su un territorio sconfinato lo si guadagna sul campo, giorno per giorno. Apparentemente anche i giochi per le presidenziali 2018 sembravano fatti. Addirittura Vyacheslav Volodin, il presidente della Duma di stato, ha proposto gongolante di tenere il voto il 18 marzo, nell’anniversario dell’annessione della Crimea. Detta così, sembrava scontato che il candidato unico a staccare il biglietto per altri 6 anni al Cremlino fosse chi con la crisi ucraina, e poi con la Siria, si era riconfermato il solo leader russo, con realistiche percentuali bulgare. Ma Putin sino al 3 aprile si era limitato a sussurrare che prenderà la decisione se ricandidarsi «a seconda di quanto accade nel Paese». Ossia se la situazione sia sotto controllo o meno. E non lo sembra affatto.
Alle manifestazioni in piazza del 26 marzo con gli oltre mille fermi, sono seguite le proteste dei camionisti infuriati contro i pedaggi, dal Baltico al Daghestan. Poi quelle del 2 aprile: ancora non si sa bene chi sia l’organizzatore. Navalny dal carcere ha preso le distanze. L’invito anonimo a protestare è rimbalzato dai social a una chat su Telegram: in strada è scesa un’umanità varia. Ancora qualche decina di fermi domenicali. Neppure il tempo di riprendere fiato, che è arrivato il lunedì nero delle bombe nella metro pietroburghese. Una esplosa, l’altra messa fuori uso a Ploshchad Vosstanja (quella dove c’è anche la stazione dei treni) grazie ai Servizi.
A chi parlava di primavera, ha risposto il vento della bufera, alzatosi rapidissimo. Il terrore e la sua recrudescenza hanno svoltolato le pagine della storia della Russia indietro di 16 anni, all’agosto 2000.
Quando entrando nel sottopasso, nella centrale Piazza Pushkin a Mosca, si sentiva ancora l’odore acre di carne bruciata, dopo l’esplosione dell’ennesima bomba. E il fumo prendeva alla gola. Anche là, 11 morti. In realtà, la lunga pista del terrorismo caucasico sembrava essersi fermata al 2010, con gli attentati di marzo alla sotterranea della capitale russa. Come pure le proteste di piazza sembravano essersi cristallizzate al 6 maggio 2012, il giorno prima del terzo insediamento di Vladimir Vladimirovich. E invece no. Come pure il terrore di matrice islamico radicale, seppure ora, a quanto pare, ci sarebbero infiltrazioni dall’Asia centrale.
Le tendenze radicali dell’Islam restano uno dei
problemi cruciali, in un Paese a maggioranza cristiano ortodossa, ma dove i musulmani rappresentano una componente crescente. Nonché uno zoccolo duro di un elettorato, apparentemente filoputiniano. La Cecenia è lo specchio nel quale le tentazioni radicali continuano a riflettersi, nonostante il pugno duro del leader Ramzam Kadyrov. Anzi è stato proprio quest’ultimo a sdoganare il velo islamico nelle scuole di Grozny in questi giorni. E dire che Putin aveva parlato chiaro più volte: «Non fa parte delle tradizioni russe», «Viviamo in uno stato laico». Ma evidentemente è il tempo della diplomazia, se a frittata fatta, il suo portavoce Dmitry Peskov ha commentato delicato: «Il Cremlino non ha una posizione unitaria sulla questione dell’hijab nelle scuole russe: c’è bisogno di sapere se affrontare il tema a livello federale, o lasciarlo a livello regionale» ha detto.
Sul fronte interno l’unica voce che guadagna tranquillità è l’economia, con la ripresa degli ultimi mesi che è anche una rivincita sulle sanzioni soprattutto europee: la Ue fa come «chi compra il biglietto e non parte» ha detto Putin. «Mentre noi non prendiamo mai decisioni che vanno contro il business e i nostri rapporti con altri Stati» ha aggiunto. Ma le questioni aperte in politica estera sono ovunque Putin si volti. Dall’Ucraina ai complessi rapporti con l’Unione Europea, peggiorati verticalmente negli ultimi cinque anni. Dalle vittorie (difficili, non prive di perdite e non ancora concluse) in Siria alla mediazione in Libia e a una presenza russa sempre più visibile nel Mediterraneo sud-orientale. La recente uccisione in piazza a Kiev dell’ex deputato comunista russo e fuggiasco Denis Voronenkov, marito della soprano Maria Maksakova, strafamosa a Mosca, è stata l’ennesima occasione per scoperchiare il calderone della crisi con la ex Repubblica socialista sovietica. Acque torbide, dove è sempre più difficile distinguere tra torti e ragioni, ma dove i russi si sono dimostrati più che mai compatti, a guardare i sondaggi. Un vecchio modo di dire sanciva: «La scelta non è per l’uomo sovietico». E neppure la primavera, a giudicare dal freddo che fa.