Nessun bambino deve morire
In Africa, i piccoli malati non hanno cure perché mancano chirurghi e ospedali. Oggi, grazie alle missioni inviate in quei Paesi dalla onlus «Bambini cardiopatici nel mondo», hanno una speranza. E noi possiamo aiutarli, come testimonia il libro Le mani ne
Ibambini non devono morire perché non ci si accorge di loro». «Alla morte di un bambino non ci si abitua mai». In queste due frasi, la prima del cardiochirurgo Alessandro Frigiola, la seconda del fotoreporter e scrittore Giovanni Porzio, c’è tutto il senso di un libro straordinario, da leggere e guardare: Le mani nel cuore, a cura di Porzio in collaborazione con l’associazione Bambini cardiopatici nel mondo, offre 160 pagine ricche di storie e fotografie, scattate dallo stesso giornalista che negli ultimi due anni ha viaggiato in cinque paesi dell’Africa a fianco della onlus e dell’équipe di Frigiola, direttore della Cardiochirurgia pediatrica al Policlinico San Donato.
Obiettivo dell’associazione, fondata nel 1993 da Frigiola, dare ai bambini con cardiopatie congenite, nei paesi più poveri,una speranza di vita che altrimenti non avrebbero: per mancanza di ospedali attrezzati, di medici che sappiano operare, di terapie efficaci; per colpa della guerra, della povertà, di sanzioni economiche, dell’indifferenza dei paesi più ricchi. Le storie e le immagini raccolte da Porzio, in Egitto, Kurdistan, Siria, Camerun e Senegal, raccontano interventi complessi su scriccioli di pochi anni (a volte nati da poco) e pochi chilogrammi, le cui vite sono appese a un filo sottile.
Come quella di Wazir, un anno, quinto figlio di una famiglia in un campo profughi di Duhok (terra curda). «Aveva un’arteria polmonare strozzata da una grave stenosi congenita» scrive Porzio. «Flebile battito cardiaco, inappetenza, difficoltà respiratorie». A operarlo è un giovane cardiochirurgo, Halkawt, che ha imparato il mestiere da Frigiola, al Policlinico San Donato, e oggi fa la spola tra Milano e il Kurdistan, che ha un’incidenza di cardiopatie congenite tra le più alte al mondo. E dove oggi Halkawt è l’unico in grado di intervenire su questi bambini. Wazir si salva.
Ce l’ha fatta anche Samir, 10 anni, nigeriano, che non sapeva di avere un difetto al cuore finché un giorno si è sentito male giocando a pallone. In sala operatoria, il quadro clinico si complica: il difetto intraventricolare è ampio, c’è ipertensione polmonare, l’intervento diventa ad altissimo rischio. «Alla fine Samir vince la sua battaglia e viene dimesso dalla terapia intensiva» ricorda Frigiola che l’ha operato un anno e mezzo fa. «Ma il mio pensiero è sempre per tutti gli altri Samir, per le migliaia di bambini che non avranno la stessa opportunità solo perché nascono in Paesi privi di strutture e di medici: non dobbiamo permetterlo».
Per questo oggi Frigiola, che trascorre tre set-
timane al mese nel suo ospedale italiano e una in Africa, ha avviato un progetto cui tiene tantissimo. «Oggi il 90 per cento dei paesi africani non ha un cardiochirurgo infantile. Noi vogliamo cambiare le cose» spiega a Panorama. «Con la collaborazione del Policlinico san Donato, vogliamo creare in almeno dieci città africane, siamo già a tre e stiamo iniziando la quarta, centri di formazione per medici locali cui diamo una borsa di studio. Se ogni centro accoglierà una decina di medici, potrebbero in tre anni formare oltre 150 professionisti tra chirurghi, cardiologi, anestesisti, intensivisti per la rianimazione. Significa dare all’Africa ciò che non ha mai avuto per secoli, significa cambiare le sorti di un continente».
Un piano generoso e ambizioso. Serviranno finanziamenti provenienti da tante fonti, tra donazioni, organizzazioni di eventi, 5 per mille. Richiedere il libro Le mani nel cuore (donando 30 euro all’associazione lo si riceve in regalo ) è un modo semplice e concreto per far sì che questo sogno si realizzi.