Torino, una magia da cercare sottopelle
Il tour «Panorama d’Italia» quest’anno comincia da Torino. Città da indagare in profondità, per evitare di cadere nei luoghi comuni del capoluogo esoterico e fordista. Ritratto di una metropoli che sta cambiando in fretta, tra luci e ombre.
Pareri d’autore: «Torino è la città più profonda, la più enigmatica, la più inquietante non solo d’Italia, ma di tutto il mondo» (Giorgio De Chirico). «Torino è città noiosissima, odiosa» (Fëdor Dostoevskij). «Torino è una bellissima città: come spaziosità supera tutto ciò che è mai stato immaginato prima» (Mark Twain). Pareri anonimi: «Torino è magica, esoterica, negromantica». «È una cittàfabbrica». «Dopo le Olimpiadi è irriconoscibile». «Salirà al top del turismo internazionale». Sui pareri d’autore non mi sento di discutere (anche se le affermazioni apodittiche mi procurano sempre un principio di orticaria), ma sulla vox populi mi permetto di dire la mia. Dunque: città magica? È purtroppo vero che da noi gli occultisti sono più numerosi dei piccioni, ma nella maggior parte dei casi si tratta di innocui visionari, che sentono le voci (dei morti, di qualche oscura e negletta divinità, dei troll o dei Puffi), e indossando vesti di foggia orientale convocano i simpatizzanti nel tinello o tavernetta e officiano. Qualche volta davanti a un tripodino con la fiamma sacra che maldestramente urtano procurandosi ustioni di vario grado. Sui furbastri che invece approfittano dei creduloni o delle personalità fragili e gli
fanno scucire il gruzzoletto, che dire? Quelli prosperano a ogni latitudine. Comunque: a Torino non si custodisce il Santo Graal, nessun faraone ci perseguita con maledizioni millenarie, le grotte alchemiche sono probabilmente una bufala, la guglia della Mole non è un’antenna che cattura le radiazioni cosmiche. Siamo magici come a Carugate, Pioltello, Isernia, eccetera.
Città-fabbrica? È stato quasi totalmente vero per decenni, quando la fabbrica per eccellenza imponeva i suoi ritmi e la sua weltanschauung all’Italia intera: quel che va bene per la Fiat va bene per tutto il Paese, si diceva. Eh no, signori miei, un capitalismo un po’ diverso era possibile, vi dicevano niente le esperienze non troppo lontane di Alba (la Ferrero) e di Ivrea (la Olivetti)? Ma Torino è città da scavare sotto la superficie, e anche allora ci si trovava di fronte a realtà poco appariscenti e contraddittorie.
Fiorivano gallerie d’arte che poi hanno aperto sedi a New York, Los Angeles, Tokyo. Nascevano riviste prestigiose non per numero di copie vendute ma per l’incisività quasi profetica degli interventi. L’orchestra sinfonica della Rai era in grado di competere con i Berliner
Philharmoniker; la stessa Rai vantava l’unica compagnia stabile di prosa impegnata in commedie e drammi radiofonici. Gli amanti del jazz potevano contare su una decina di club (eredi del primo Hot club d’Italia, anno 1933). L’Einaudi pubblicava il meglio della narrativa e saggistica italiana e straniera. Insomma, c’era il pane ma anche qualche rosa: sotto il grigiore fordista si aprivano squarcetti colorati. Irriconoscibile dopo le Olimpiadi? Su questo l’opinione diffusa e condivisa ci azzecca. Torino è rifiorita grazie a interventi urbanistici coraggiosi che le hanno notevolmente cambiato l’aspetto, soprattutto nel centro storico e lungo tre assi di scorrimento (le cossiddette Spine). Onore al merito di chi ha creduto nell’evento olimpico, ci ha profuso tutte le energie possibili, e (maraviglia!) non è stato invischiato in processi relativi a disinvolti maneggi oppure omissioni da Codice penale. L’onestà nell’amministrare denaro pubblico, volendo, è possibile. Ovvio però che qualche errore sia stato fatto: un eccesso di costruzioni (sia pure su aree ex industriali da riconvertire) con la conseguenza di una miriade di appartamenti sfitti e inaffitabili; una scarsa attenzione alle periferie, poco o niente coinvolte nel riassetto urbanistico. Già, le periferie: punto dolente di tutte le grandi città. Zone in cui si sono concentrati, a partire dalla metà del secolo scorso e in alcuni casi anche prima, mutamenti profondi nella tipologia degli abitanti. Prendo a esempio emblematico la Barriera di Milano, cioè la vasta area nordoccidentale della città, che ha conosciuto, prima dell’avvento del fascismo, l’arrivo degli immigrati piemontesi dalle campagne intorno a Vercelli e Novara, successivamente quello dei veneti, poi dei meridionali grazie al boom economico, e infine degli
extracomunitari. Dalla Barriera se ne è andata, nel corso del tempo, gran parte della popolazione approdata alla condizione piccolo borghese; sono scomparse le attività artigianali; i negozi hanno progressivamente cambiato tipo di clientela o sono scomparsi, soppiantati da minimarket abbastanza scalcinati e puzzolenti e nelle ex aree industriali si è installata la grande distribuzione.
Ora la Barriera è una delle zone più problematiche della città: centri di massaggi a copertura di meno limpide attività, spaccio di ogni tipo di droga, comprese quelle di ultima generazione non ancora considerate tali, micro e macro delinquenza per l’infiltrazione della malavita organizzata, in particolare ‘ndrangheta. Disoccupazione, clandestinità. Muri sconciati, strade sporche. Degrado che attira il degrado. Ci sono volenterosi interventi di recupero da parte di parrocchie e associazioni laiche, ma in tempi di vacche magre mancano i grossi finanziamenti e forse anche la visionarietà positiva per un grande progetto. Mi piace però ricordare l’iniziativa Arte in
Barriera, grazie a cui parecchie parti di facciate, difficilmente raggiungibili dagli imbrattamuri con i loro narcisistici tag, sono state ricoperte da apprezzabili e allegri murales: un momentaneo sollievo visivo dalla desolazione.
Al top del turismo? No, per favore no! Un incremento del turismo va bene, ma senza esagerare: «esageroma nen» del resto è il motto della città e i torinesi meno succubi degli slogan e delle proposte semplicistiche non vogliono essere estromessi dal loro habitat, come è accaduto a Venezia e Firenze. Da veri «bastian contrari», i torinesi non vedono un’opportunità nel turismo massiccio, bensì una iattura tipo invasione delle cavallette. Per chiuderla qui: la mia città mi piace, ci sto bene come in una pantofola ammorbidita dall’uso, e se devo riassumere le caratteristiche più significative della «sabaudage» ricorrerò alle due espressioni dialettali usate prima: il sottotono (oggi understatement) e il piacere della contraddizione. Un esempio? Ovunque in Italia per elogiare le qualità morali di una persona si tira in ballo il pane con locuzioni dialettali che significano sempre «buono come il pane»; noi il paragone con il pane lo facciamo così: «fol come ‘na mica», cioè stupido come una pagnotta. Ci piace distinguerci, ma sommessamente.