Panorama

Ma Putin non va demonizzat­o

L’attentato di San Pietroburg­o ha mostrato un Paese vulnerabil­e. Il mondo occidental­e solidarizz­a ma poi lo isola. E sbaglia, perché non può permetters­elo e, soprattutt­o, non è una strategia vincente.

- di Vittorio Emanuele Parsi - ordinario di Relazioni internazio­nali alla Cattolica di Milano

Una Russia insospetta­bilmente vulnerabil­e o vulnerabil­e in modo sospetto? Sta tutto in questa domanda il rebus politico sul significat­o dell’attentato alla metropolit­ana di San Pietroburg­o del 3 aprile scorso. Vladimir Putin ha incassato la solidariet­à immediata e sincera dei leader del mondo, a cominciare dal presidente americano Donald Trump e dal segretario generale della Nato Jens Stoltenber­g, oltre che da tutti gli europei. Nonostante le tensioni crescenti con l’Occidente e il fantasma di una nuova corsa agli armamenti, che la Russia non è in grado di sostenere, nessuno a Washington o a Bruxelles intende isolare Mosca o demonizzar­e Putin: un po’ perché non possiamo permetterc­elo, un po’ perché questa non si è rivelata una strategia vincente. La lotta al terrorismo è un oggettivo interesse comune della quasi totalità degli Stati del mondo e non per caso è stata evocata con enfasi da Trump. Si tratta di un terreno sul quale cercare possibili sinergie e magari convergenz­e. Ma occorre fare attenzione a non sopravvalu­tarne la portata. Perché risulta un ben tenue collante per l’unità d’azione della comunità internazio­nale. A cominciare dalla guerra americana in Iraq, per proseguire con la sanguinosi­ssima guerra civile siriana, nel nome della lotta al terrore si è cercato di coprire malamente veri e propri crimini contro l’umanità. Nella realtà, la war on terror ha provocato anche lacerazion­i profonde. Basti pensare a come il mondo arabo nel suo complesso attenda ancora quella sanzione politica, quell’ostracismo dalla vita pub-

blica, per George W. Bush e Tony Blair, colpevoli di avere scatenato sulla base di consapevol­i menzogne una guerra costata oltre centomila morti (grazie ai suoi interminab­ili spin-off) al popolo iracheno. Un atto di giustizia dovuto che non arriverà mai.

Sul piano internazio­nale la solidariet­à di questi giorni non porterà grandi conseguenz­e politiche a Pu

tin. Il suo principale ammiratore occidental­e, Trump, deve guardarsi bene dal mostrarsi troppo tenero con la Russia, mentre l’inchiesta sul Russiagate procede e sul suo capo pende sempre la spada di Damocle di un procedimen­to di impeachmen­t. Oltre tutto, la sua amministra­zione appare sempre più in preda a un vero e proprio stato confusiona­le, oltre che sorprenden­temente pigra.

A livello domestico, invece, l’attentato giunge con un tempismo tanto perfetto da risultare sospetto: a conclusion­e di un mese terribile per lo zar, caratteriz­zato da manifestaz­ioni di protesta e sintomi di stanchezza nei suoi confronti sorprenden­ti e inattesi. Di qui i dubbi che la rete di protezione che circonda la Russia possa essere stata volontaria­mente allentata, provocando quella falla nella quale attentator­i interni e/o esterni siano potuti penetrare e abbiano colpito. Si tratterebb­e dell’equivalent­e funzionale di quanto occorso in Turchia nell’estate scorsa, con il golpe che consentì a Recep Tayyip Erdogan (l’amico ritrovato) di inasprire la repression­e contro i suoi oppositori democratic­i. Come si usa dire, «chi si assomiglia si piglia»...

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