Ma Putin non va demonizzato
L’attentato di San Pietroburgo ha mostrato un Paese vulnerabile. Il mondo occidentale solidarizza ma poi lo isola. E sbaglia, perché non può permetterselo e, soprattutto, non è una strategia vincente.
Una Russia insospettabilmente vulnerabile o vulnerabile in modo sospetto? Sta tutto in questa domanda il rebus politico sul significato dell’attentato alla metropolitana di San Pietroburgo del 3 aprile scorso. Vladimir Putin ha incassato la solidarietà immediata e sincera dei leader del mondo, a cominciare dal presidente americano Donald Trump e dal segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, oltre che da tutti gli europei. Nonostante le tensioni crescenti con l’Occidente e il fantasma di una nuova corsa agli armamenti, che la Russia non è in grado di sostenere, nessuno a Washington o a Bruxelles intende isolare Mosca o demonizzare Putin: un po’ perché non possiamo permettercelo, un po’ perché questa non si è rivelata una strategia vincente. La lotta al terrorismo è un oggettivo interesse comune della quasi totalità degli Stati del mondo e non per caso è stata evocata con enfasi da Trump. Si tratta di un terreno sul quale cercare possibili sinergie e magari convergenze. Ma occorre fare attenzione a non sopravvalutarne la portata. Perché risulta un ben tenue collante per l’unità d’azione della comunità internazionale. A cominciare dalla guerra americana in Iraq, per proseguire con la sanguinosissima guerra civile siriana, nel nome della lotta al terrore si è cercato di coprire malamente veri e propri crimini contro l’umanità. Nella realtà, la war on terror ha provocato anche lacerazioni profonde. Basti pensare a come il mondo arabo nel suo complesso attenda ancora quella sanzione politica, quell’ostracismo dalla vita pub-
blica, per George W. Bush e Tony Blair, colpevoli di avere scatenato sulla base di consapevoli menzogne una guerra costata oltre centomila morti (grazie ai suoi interminabili spin-off) al popolo iracheno. Un atto di giustizia dovuto che non arriverà mai.
Sul piano internazionale la solidarietà di questi giorni non porterà grandi conseguenze politiche a Pu
tin. Il suo principale ammiratore occidentale, Trump, deve guardarsi bene dal mostrarsi troppo tenero con la Russia, mentre l’inchiesta sul Russiagate procede e sul suo capo pende sempre la spada di Damocle di un procedimento di impeachment. Oltre tutto, la sua amministrazione appare sempre più in preda a un vero e proprio stato confusionale, oltre che sorprendentemente pigra.
A livello domestico, invece, l’attentato giunge con un tempismo tanto perfetto da risultare sospetto: a conclusione di un mese terribile per lo zar, caratterizzato da manifestazioni di protesta e sintomi di stanchezza nei suoi confronti sorprendenti e inattesi. Di qui i dubbi che la rete di protezione che circonda la Russia possa essere stata volontariamente allentata, provocando quella falla nella quale attentatori interni e/o esterni siano potuti penetrare e abbiano colpito. Si tratterebbe dell’equivalente funzionale di quanto occorso in Turchia nell’estate scorsa, con il golpe che consentì a Recep Tayyip Erdogan (l’amico ritrovato) di inasprire la repressione contro i suoi oppositori democratici. Come si usa dire, «chi si assomiglia si piglia»...