Le sabbie mobili del Pd dem
Il dibattito delle primarie sul ballo di Emiliano. Lo svogliato sostegno al governo. Renzi con le mani legate. I alle elezioni rischiano di fare da spettatori a un duello tra grillini e centrodestra.
L’argomento top delle primarie del Pd? Il tallone di Michele Emiliano. Appunto, l’infortunio al tendine del governatore-magistrato della Puglia è stata la questione che più ha coinvolto i protagonisti dell’ultima fase congressuale del Pd, sul tema amletico: le primarie vanno rinviate per dare l’opportunità al candidato infortunato di tornare a ballare, o no? Quel tema, tra il comico e il faceto, paradossalmente, è diventato anche il tallone di Achille del Pd, l’immagine di un partito che non riesce più ad appassionare, che non riesce più a ritrovare un’idea guida da presentare al Paese. Parla del tallone di Emiliano, dello scontro polemico tra i candidati, dei veleni e delle piccole furbizie, perché questo Pd non sa di cos’altro parlare. Lo stesso Matteo Renzi abusa della parola futuro, perché sul presente, dopo tre anni di governo, non sa che pesci prendere. E i suoi concorrenti non stanno meglio. Anzi. Andrea Orlando si abbandona agli artifici retorici del passato: «Il Pd deve aprirsi, deve andare nelle scuole e nelle fabbriche». Emiliano, invece, con la sua apertura al M5s, testimonia la sudditanza psicologica e culturale (viene quasi da ridere) al grillismo. Peggio di così!
Il problema è che in Italia come nel mondo, la sinistra dimostra di essere in ritardo con la Storia. Le sue incrostazioni ideologiche le hanno impedito di capire i mutamenti del terzo millennio, i problemi dirimenti che prepotentemente si sono fatti avanti nella società. Quando Renzi si mette all’occhiello i piani di oggi di Marco Minniti sulla sicurezza e sull’immigrazione, dimentica che sono le questioni su cui è nato il centrodestra vent’anni fa. Oppure, quando propone, provocatoriamente contro la Ue, di convocare la prossima assemblea del Pd a Bruxelles, non rammenta che nel 2011 il governo di Silvio Berlusconi è stato vittima dello scontro nelle istituzioni europee sulla politica dell’austerity. Insomma, è un partito indietro di dieci, vent’anni. «Non mi meraviglierei» osserva profetico lo «scissionista» Miguel Gotor «se le prossime elezioni politiche si trasformassero in un duello tra centrodestra e grillini, con il Pd relegato al ruolo di spettatore». Un rischio da non sottovalutare nelle condizioni attuali: il Pd, infatti, è costretto ad appoggiare senza entusiasmo, un governo che è condannato all’inerzia, che non può osare per paura di ripercussioni elettorali. È in un cul de sac. E, alla fine, l’unico che sembra essere conscio di questa terribile difficoltà è proprio l’ex-segretario. Anche perché è quello che rischia di pagare in prima persona le possibili disfatte elettorali, prima alle amministrative di giugno, poi alle prossime politiche.
Il problema, però, è che Renzi è impotente: ha le mani legate dalle contraddizioni del suo partito che neppure i suoi tre anni a Palazzo Chigi hanno risolto. È una tigre in gabbia, costretta un giorno a fare un passo avanti e a minacciare sconquassi; un altro a farne due indietro per rassicurare. «Lui» osserva il senatore Salvatore Margiotta, pd con passato democristiano «è il migliore che abbiamo. Rappresenta la fortuna ma anche i limiti del Pd. Gli altri se non parlano del tallone di Emiliano, ripiegano sulla canottiera». Appunto, una situazione sconfortante che potrebbe diventare drammatica se in autunno il partito dovrà sobbarcarsi la responsabilità di una legge di stabilità complicata. «Mi sbaglierò» osserva in proposito il Cav «ma se non trova un’altra strada, un altro spartito, il Pd rischia di essere un partito finito, rischia di essere sostituito da qualcos’altro».