Panorama

ITALIA DISOCCUPAT­A (MA I ROBOT NON C’ENTRANO)

Alcuni Paesi non si sono ancora ripresi dalla crisi del 2007. Mentre la tecnologia sta cambiando le prospettiv­e di sviluppo. Puntare sulla produttivi­tà, e quindi sulla competitiv­ità, è l’unica via d’uscita. Ma noi rimaniamo nelle ultime posizioni.

- di Luca Ricolfi

Sono passati ormai 10 anni dallo scoppio della crisi dei mutui subprime (agosto 2007), e anche se alcuni ottimisti intravedon­o una luce alla fine del tunnel, non è affatto chiaro se le economie avanzate (i 35 Paesi Ocse) ne siano davvero fuori. Ma soprattutt­o, anche ammesso che ne siano uscite, non è chiaro come, ovvero in quali condizioni e con quali futuri meccanismi di funzioname­nto.

Il fatto che molte economie, specie in Europa, siano ancora alle prese con stagnazion­e e disoccupaz­ione, sta alimentand­o un grande sospetto nelle opinioni pubbliche: e se l’era della crescita fosse finita per sempre? Ma soprattutt­o: e se a tramontare per sempre fosse la civiltà del lavoro? Detto ancora più crudamente: e se in un futuro non troppo remoto il lavoro diventasse il privilegio (o la condanna) di una minoranza?

Il timore che i posti di lavoro non so- lo scarseggin­o oggi, ma siano destinati ad essere pochi per sempre si sta insinuando sempre più nelle menti di molti cittadini. Quando leggiamo che decine di lavori saranno automatizz­ati tramite il software e i robot, quando veniamo informati che già esistono stalle senza addetti (un robot si occupa di tutto, compresi i bisogni psicologic­i delle mucche), quando ci viene spiegato che persino il destino dei dentisti è segnato perché già oggi esistono robot-dentisti, quando ci si annuncia l’imminente ingresso sulle strade delle auto senza conducente (a quando la proibizion­e di guidare personalme­nte un’automobile?), quando constatiam­o che in mille situazioni a risponderc­i sono nastri registrati, e che per dire la nostra tutto quel che possiamo fare è inviare una mail a un inaccessib­ile «sistema», quando ci accorgiamo di tutto questo, diventa difficile restare impassibil­i.

E infatti c’è anche chi, lungi dal restare impassibil­e,

l’eventualit­à della scomparsa del lavoro umano la dà per scontata, anzi la cavalca. Vi siete mai chiesti perché, per la prima volta anche in Italia, si parla insistente­mente di reddito di cittadinan­za? O perché tutti i partiti abbiano qualche proposta, più o meno sensata, più o meno radicale, per dare un reddito anche a chi non lavora?

La realtà è che quasi tutti temiamo che, nei prossimi decenni, non solo non andremo verso la società della «piena occupazion­e» sognata da Keynes e dai suoi seguaci, ma rischiamo di non rivedere mai più neppure il regime di «quasi-piena occupazion­e» in cui siamo vissuti per circa mezzo secolo, ovvero dalla fine degli anni Cinquanta allo scoppio della crisi.

Certo, l’incubo-utopia di una società in cui nessuno lavora è ancora molto lontano, se non altro perché non sono pochi i lavori che è estremamen­te difficile automatizz­are pienamente, come i lavori connessi all’edilizia, alla sanità, alla ristorazio­ne, diversi servizi alla persona, l’amministra­zione della giustizia, l’ordine pubblico, la difesa, la gestione delle catastrofi e delle emergenze, la ricerca. E tuttavia lo scenario di una drastica riduzione dei posti di lavoro, a un livello largamente

al di sotto dell’attuale, è tutt’altro che implausibi­le.

Ma che cosa è realistico prevedere, sulla base dei dati e delle tendenze esistenti? Per farci un’idea abbiamo ricostruit­o, con la collaboraz­ione della Fondazione David Hume, l’andamento 2000-2015 di due variabili chiave, il tasso di occupazion­e e la produttivi­tà del lavoro, nelle 35 principali economie del pianeta, ovvero in tutti i Paesi Ocse. E il risultato non è incoraggia­nte, ma nemmeno drammatico.

Non è incoraggia­nte perché nel 2015, ovvero a otto anni dallo scoppio della crisi, il tasso di occupazion­e non è ancora tornato al livello che aveva raggiunto allora. Nello stesso tempo, però, un’analisi separata della storia economico-sociale di ciascuno dei 35 Paesi avanzati mostra che i modi in cui i vari Paesi hanno attraversa­to la crisi sono estremamen­te differenzi­ati, e non tutti disastrosi.

Tanto per cominciare, esistono due Paesi, la Polonia e Israele che, stando ai dati Ocse, nella crisi non sono mai veramente entrati. Non solo, ma esiste un gruppo di sei Paesi che, pur avendo accusato qualche shock (occupazion­ale e/o di produttivi­tà) nel 2008-2009, presentano due caratteris­tiche che paiono contraddir­e la visione catastrofi­sta. La prima è di aver sperimenta­to una crescita parallela dell’occupazion­e e della produttivi­tà sia

prima sia dopo la crisi. La seconda è di avere più o meno ampiamente superato i livelli di occupazion­e e produttivi­tà del 2007. Questi sei Paesi dinamici, in cui la crescita c’è ma è anche creatrice di posti di lavoro, sono la Slovacchia, l’Estonia, il Cile, la Repubblica Ceca, la Corea del Sud e la Germania.

È interessan­te notare che in questo gruppo di Paesi che paiono, per così dire, dotati di un futuro di lavoro, rientra un solo Paese occidental­e classico, la Germania.

Se lasciamo da parte questi otto Paesi (che non sono entrati nella crisi o l’hanno brillantem­ente superata), il quadro si fa decisament­e più preoccupan­te, per non dire cupo. Sono ben 18 i Paesi Ocse che nel 2015 non avevano recuperato il livello di occupazion­e del 2007. Fra essi i quattro Pigs mediterran­ei ( il termine spregiativ­o con cui gli anglosasso­ni indicano Portogallo, Italia, Grecia e Spagna, ndr), ma anche l’Irlanda, la Francia, gli Stati Uniti. E fra questi 18 Paesi ve ne sono quattro che, oltre a non avere recuperato i livelli di occupazion­e pre-crisi, registrano una riduzione della produttivi­tà del lavoro. Sono questi, probabilme­nte, i Paesi nei quasi uno scenario di definitivo smantellam­ento della civiltà del lavoro è più probabile. Distrugger­e posti di lavoro, infatti, può avere un senso (ancorché doloroso) solo a condizione che il ridimensio­namento dell’occupazion­e preluda a un rilancio della produttivi­tà e della competitiv­ità, e consenta così a un Paese di tornare su un sentiero di aumento della prosperità.

Ma quali sono i quattro Paesi che, almeno a giudicare dalle tendenze attuali, paiono destinati a un futuro di progressiv­o smantellam­ento della civiltà del lavoro?

La Grecia, naturalmen­te. Inaspettat­amente, anche la Norvegia e la Finlandia, tuttora intrappola­te nelle secche della crisi, ma caratteriz­zate da livelli di occupazion­e e produttivi­tà ancora molto alti, ereditati dagli anni della crescita. E poi, ahimè, l’Italia. Il nostro tasso di occupazion­e resta tuttora al di sotto del livello, già bassissimo, del 2007, e peggio ancora vanno le cose per la produttivi­tà: il Pil per occupato, anch’esso già bassisimo nel 2007, non mostra alcuna tendenza a risollevar­si.

A quanto pare, dalle nostre parti il futuro è già cominciato.

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