DEFICIT E SPESA, SIAMO QUELLI DI SEMPRE
Lorenzo Bini Smaghi guarda alla manovrina preelettorale con scetticismo e avverte: l’Italia ha perso tempo, non ha usato con intelligenza la flessibilità sui conti e così è rimasta al punto di partenza. Con l’instabilità finanziaria sempre dietro l’angolo
Una stangatina da 3,4 miliardi, come chiedeva l’Unione europea, e rinvio a settembre delle scelte più difficili: privatizzazioni, riforma del catasto e soprattutto come trovare una trentina di miliardi per l’anno prossimo. Ne servono 19,6 per disinnescare la bomba a tempo chiamata clausola di salvaguardia (l’aumento dell’Iva rinviato da tre anni) e il resto per tenere il deficit entro l’1,2 per cento del Pil, come promesso. Pier Carlo Padoan, messo sotto tiro da Matteo Renzi che gli chiede di allargare i cordoni della borsa, sembra Penelope: di notte tesse la tela e di giorno i suoi colleghi la disfano. Di qui all’autunno, chiuse le primarie del Pd e aperta la campagna elettorale, saranno guai seri.
«È triste che ci siano ancora esponenti politici che pensano di vincere le elezioni facendo più deficit e più spesa pubblica. È un’illusione, come si è visto negli anni e persino nei mesi scorsi. A rimetterci, in fin dei conti, è il Paese, soprattutto i giovani» commenta desolato Lorenzo Bini Smaghi, presidente di Société Générale, una delle prime banche francesi, già membro del comitato esecutivo della Banca centrale europea (Bce) dal 2005 al 2011.
È vero, però, che una politica fiscale troppo restrittiva può danneggiare la fragile ripresa.
Negli ultimi tre anni la politica fiscale italiana è stata espansiva, non restrittiva. I dati sono chiari in proposito. E purtroppo la crescita rimane debole, rispetto agli altri Paesi europei.
La correzione dei conti pubblici viene fatta senza toccare la spesa corrente: è davvero incomprimibile?
La spesa corrente, al netto dei tassi d’interesse, continua ad aumentare (lo scorso anno di circa il 2 per cento). Il problema non è comprimerla, ma smettere di farla aumentare.
Qual è la priorità della politica di bilancio: ridurre le imposte sui redditi o tagliare il debito?
Il debito deve cominciare a scendere, in rapporto al Pil, sennò prima o poi diventerà difficile rifinanziarlo sui mercati, e a quel punto saranno dolori.
Come è stata utilizzata la flessibilità concessa dalla Ue negli ultimi due anni?
È stata usata male, non solo per quel che riguarda il risultato in termini di crescita, ma anche in termini di credibilità del Paese. Avevamo chiesto flessibilità per fare investimenti e invece è aumentata la spesa corrente.
La Bce ha dato una robusta boccata d’ossigeno, ma quanto potrà durare?
Mario Draghi ha dalla sua parte la maggioranza del Comitato direttivo della Bce. Non ci sono problemi da questo punto di vista. Ma prima o poi il Quantitative easing ( l’immissione di liquidità, ndr) finirà. Il rialzo dello spread, dovuto all’incertezza politica in Italia, ha già fatto salire i tassi a lunga e rischia di creare un problema per la sostenibilità del debito.
Le privatizzazioni servono a ridurre il debito o alimenteranno ancora la spesa?
Le privatizzazioni senza una politica di
« IL DEBITO DEVE COMINCIARE A SCENDERE, IN RAPPORTO AL PIL, SE NO SARANNO DOLORI »
controllo della spesa pubblica e del deficit sono solo un palliativo.
La crisi bancaria è davvero in via di soluzione con l’intervento dello Stato?
L’intervento pubblico serve a fornire capitale alle banche che non ne hanno abbastanza per ripulire il loro bilancio e assorbire le perdite. Ma non basta. Come dimostra il caso Unicredit, ci vuole un piano industriale credibile, che renda attrattivo l’investimento privato e consenta poi allo Stato di poter uscire nel tempo. Questo ancora manca, mi sembra.
È stato sottovalutato il precario stato di salute del sistema bancario italiano? Chi ha sbagliato?
Che sia stato sottovalutato lo dimostrano i fatti. Si è detto troppo a lungo che tutto andava bene, con il risultato poi di fare di tutta l’erba un fascio, e il problema di qualche banca è diventato, soprattutto agli occhi esterni, un problema sistemico italiano. Dato che alcune banche sono in buone condizioni ma altre meno, la responsabilità è prima di tutto degli amministratori, e di chi li ha nominati, ossia gli azionisti. Sono loro che hanno cercato di guadagnare tempo per rinviare il riconoscimento delle perdite e gli aumenti di capitale, con il risultato di indebolire la banca.
Era possibile rinviare il bail-in o applicarlo in modo flessibile?
Il problema non è stato il bail-in ma la riluttanza dei successivi governi, da quello Monti in poi, a intervenire in modo deciso per sostenere il sistema bancario, in modo preventivo, con fondi pubblici, come ad esempio è stato fatto negli Stati Uniti. Si è cercato invece di far pagare il conto alle altre banche, quelle sane, con il risultato di indebolire l’intero sistema.
Vista con gli occhi di un investitore straniero, come appare l’Italia di oggi?
È un Paese che si avvicina alle prossime elezioni con una legge elettorale che non favorisce la governabilità, con vari partiti tentati dalla rincorsa del populismo. In un contesto economico caratterizzato da crescita debole e con un debito pubblico pari al 133 per cento del Pil che non scende. Chi guarda da fuori cerca di stare alla larga fin quando non viene fatta chiarezza.
C’è il rischio di cadere in un’instabilità politica permanente?
Prima dell’instabilità politica rischia di arrivare l’instabilità finanziaria, perché gli investitori guardano in avanti, per proteggere i loro risparmi.
Dunque, una nuova crisi tipo 2011 non è scongiurata?
Rischiamo di ricaderci. Rispetto al 2011 la Bce ha varato un nuovo strumento di intervento, l’Omt (interventi illimitati), ma per poterne beneficiare il Paese deve sottoporsi a un programma di risanamento concordato con le istituzioni europee. Era ciò che era stato proposto all’Italia a fine 2011, ma l’Italia rifiutò, pensando di fare da sola con un governo tecnico. La Spagna invece andò alle elezioni e poi accettò la proposta, risanò il sistema finanziario, fece le riforme e ora sta avanti a noi nella ripresa economica.