Panorama

Illuminata, imprevedib­ile Bologna

Per il secondo appuntamen­to del 2017, il tour di «Panorama d’Italia» arriva nella città felsinea. Epicentro del Paese fra aperture al mondo e gelose tradizioni, capace di tenere insieme gusto del vivere, realismo, innovazion­e, sogno.

- di Giancarlo Mazzuca

Ma quanto è bello andare in giro per i colli bolognesi...». Non ho dubbi: la canzone di Cesare Cremonini è la mia immagine preferita di Bologna perché non c’è solo la basilica di San Luca, che da secoli ti benedice, a guardare dall’alto in cima al colle della Guardia, ancora più in alto delle Due Torri, la città in cui sono cresciuto. Là, sulle colline bolognesi, ho vissuto la mia giovinezza in mezzo a tantissimi studenti universita­ri che inseguivan­o il loro futuro nel lembo d’Italia forse più accoglient­e e libero del dopoguerra. Dopo la laurea in Scienze Politiche, con professori come Renato Ruffilli poi ucciso dalle Br, avevo frequentat­o la Johns Hopkins, la celebre scuola di Baltimora di studi di politica internazio­nale che proprio a «Bologna la rossa», la sede della più antica università del mondo, vanta la sua unica succursale europea. La palazzina di via Belmeloro era frequentat­a da allievi dei cinque continenti e molti avevano trovato alloggio proprio sui colli. Americani, tedeschi, francesi, olandesi, inglesi, italiani, slavi, arabi, turchi (quarant’anni dopo, ha frequentat­o quelle aule anche il figlio di Erdogan poi espulso dall’Italia), che hanno contribui-

to a trasformar­e la capitale dei portici e delle piazze in un centro cosmopolit­a, regno del sapere e dei sapori, consideran­do l’eterno amore di questa terra per la buona tavola e per i tortellini. Succedeva, così, che, spesso e volentieri, allora si disputasse­ro ad alta quota, lassù sui colli, partite di calcio tra gli studenti Made in Italy contro i rappresent­anti degli altri Paesi dell’universo Hopkins. Gli incontri (e gli «azzurrini» perdevano quasi sempre) si svolgevano nel giardino della casa di Nicola Matteucci, il compianto professore di Storia delle dottrine politiche, novello

Socrate che accoglieva la meglio gioventù nella sua residenza e che mi ha fatto scoprire Tocquevill­e. Tutto questo per dire che, nonostante

certe immagini stereotipa­te tipo il braccio di ferro da sagra paesana alla Guareschi tra il sindaco comunista Dozza, il padre di tutti i Pepponi, e il cardinal Lercaro, un don Camillo a 360° sostenuto da Dossetti, Bologna resta, pur con qualche battuta d’arresto, una città poliedrica ed internazio­nale dove la tolleranza, anche religiosa, e l’apertura al «nuovo» in qualsiasi campo costituisc­ono il profondo Dna. Merito

della cultura, ma anche della bonarietà di carattere e della lungimiran­za della gente felsinea. Forse, per far carriera, da Bologna si va via, ma poi ci si torna sempre. Lo dice anche Enzo Biagi: « Bulagna me at voj ben (Bologna io ti voglio bene) era il titolo di una vecchia commedia ed esprime benissimo il sentimento di noi esuli che ormai da tanti anni lavoriamo lontano». E lo stesso giornalist­a, che pure era nato sull’Appennino, riapparve in città per dirigere Il Resto del Carlino, il giornale da cui aveva mosso i primi passi. Ma anche tanti «stranieri» sono stati attratti da Bologna. È il caso di Indro Montanelli che ha ricordato spesso il suo feeling con Bologna anche per un incontro imprevisto in mezzo alla nebbia padana che, una volta, invadeva anche le vie del centro. C’era tanto freddo, quella sera, sotto il Pavaglione e, per scaldarsi un po’, l’allora inviato del Corriere si mise a guardare la vetrina illuminata di una salsamente­ria del centro piena di mortadelle e di tortellini. Solo un attimo perché, accanto al negozio, Cilindro, lui laico impenitent­e, restò folgorato da un vecchio prete che, seduto su uno sgabello, chiedeva la carità. Fece fatica a riconoscer­lo: quel religioso, don Olinto Marella, era stato il suo vecchio professore di filosofia al liceo di Rieti guidato da Montanelli senior, il preside Sestilio. Allora don Marella era stato sospeso a divinis per avere dato ospitalità allo «scomunicat­o» Romolo Murri, suo compagno di seminario. Poi si trasferì a Bologna e fondò l’Opera Padre Marella, il simbolo della carità e dell’assistenza nella città

emiliana. E ancora adesso, sotto le Due Torri, continuano ad andare idealmente a braccetto il diavolo - il vecchio sindaco Dozza - e l’acqua santa - don Olinto. Peccato solo che l’immagine di Bologna capitale della tolleranza religiosa, musulmani compresi, sia stata messa in discussion­e, con tanto di allerta al massimo livello, da un affresco quattrocen­tesco di Giovanni da Modena, che raffigura Maometto all’inferno, nella cappella Bolognini della cattedrale di San Petronio. Anni fa, alcuni osservator­i avevano descritto Bologna come una signora un po’ così, un tempo opulenta e ricca di fascino, poi decrepita e stanca, nonostante ripetuti «maquillage». Sazia e disperata aveva detto il cardinale Giacomo Biffi, una delle menti più lucide. In effetti, così come un tempo c’era allo stadio «il Bologna che tremare il mondo fa» che è poi finito anche in serie B, la città stessa ha subìto qualche retrocessi­one. Personalme­nte, non sono così sicuro di questo declino: certo, il modello della via Emilia, epicentro Bologna, descritto quasi cinquant’anni fa da un giovanotto di belle speranze di cognome Prodi,

non ha retto all’urto della globalizza­zione spinta. E si è pure dissolto l’altro progetto, questa volta politico, dell’Ulivo che Romano aveva messo a punto nei locali sopra la stessa salsamente­ria vista da Montanelli (da cui il soprannome dato al Professore di «Mortadella»). Ma nonostante gli ultimi sindaci - a cominciare dal quel «Cinese», mio vecchio amico, chiamato Sergio Cofferati, grande sostenitor­e della tesi molto discutibil­e secondo la quale bisogna innaffiare i tortellini in brodo con un bicchiere di vino rosso come fanno a Cremona (Dio lo perdoni!) -, le due Torri continuano a svettare alte, appena sotto i colli bolognesi. E pazienza se il modello universita­rio ha perso qualche colpo e l’ondata migratoria è talvolta diventata una specie di maremoto. Su una cosa sono certo: Bologna è oggi grassa ma poco rossa perché ha assunto un colore indefinito tendente al grigio, come se aspettasse nuove illuminazi­oni per tornare a splendere in technicolo­r. Merito anche dei suoi cantori, i cantanti e i cantautori emiliani. Non solo Cremonini: da Lucio Dalla ad Andrea Mingardi, da Gaetano Curreri e gli Stadio a Luca Carboni e Samuele Bersani, da Gianni Morandi ad un bolognese importato come Francesco Guccini. Tutti hanno interpreta­to le voci della città coniugando i sogni con il realismo ( L’anno che verrà), la nostalgia del passato al presente ( Chiedi chi erano i Beatles), l’amicizia alla comprensio­ne ( Chicco e Spillo), la fantascien­za alla tradizione ( A’io vest un marzian), l’amore e il desiderio ( C’è). Un modo unico di fare musica che porta Bologna nel cuore di chi vive lontano da qui. Secondo alcuni, tutto dipendereb­be dal carattere un po’ provincial­e dei suoi abitanti che sarebbero costretti a cercare nuove strade per superare la visione limitata di questo piccolo mondo. Sarebbe anche colpa dei portici che si sviluppano per chilometri e, secondo qualcuno, impedirebb­ero ai petroniani di scorgere l’infinito del cielo. Ma poi vai in Piazza Maggiore e guardi su, verso i colli. E tutti, come canta Vasco Rossi, «siamo ancora qua, eh già…».

 ??  ?? La piazza e la basilica di Santo Stefano, con i caratteris­tici portici: nel centro di Bologna si sviluppano per 38 chilometri.
La piazza e la basilica di Santo Stefano, con i caratteris­tici portici: nel centro di Bologna si sviluppano per 38 chilometri.
 ??  ?? Il centro di Bologna, su cui svettano le sue torri-simbolo del XI secolo: la Torre degli Asinelli (la più alta) e, accanto, la Garisenda.
Il centro di Bologna, su cui svettano le sue torri-simbolo del XI secolo: la Torre degli Asinelli (la più alta) e, accanto, la Garisenda.
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