Panorama

Lasciateci liberi di scegliere un Inps «privato »

Per la prima volta nel 2016 il patrimonio netto dell’Istituto, che solo sei anni fa era pari a 40 miliardi di euro, è diventato negativo. E il bilancio si è chiuso con perdite di oltre 7 miliardi, ripianate dallo Stato. Il prezzo più alto lo pagheranno gi

- di Massimo Blasoni Imprendito­re e presidente del Centro studi ImpresaLav­oro

Il deficit di gestione ormai struttural­e dell’Inps è l’emblema dell’insostenib­ilità del nostro impianto previdenzi­ale. Nel 2016 il patrimonio netto dell’Istituto è andato per la prima volta in negativo: sei anni fa misurava oltre 40 miliardi. Lo scorso esercizio ci sono state perdite per 7,65 miliardi, in linea con quelle che si registrano ormai da anni. Il disavanzo, regolarmen­te ripianato dallo Stato, è frutto del disallinea­mento tra contributi versati - con il criterio della ripartizio­ne, dai lavoratori di oggi - e pensioni pagate. A questo si aggiunge la notevole massa dei crediti che l’Inps non riesce a incassare e che è costretto ciclicamen­te a svalutare: un po’ come avviene per i crediti deteriorat­i delle banche. Si tratta di cifre ingentissi­me che rappresent­ano un’ulteriore pesante ipoteca sul bilancio della previdenza nazionale.

È noto che il sistema retributiv­o applicato in passato fu

troppo generoso, ma la situazione attuale è anche frutto di una gestione non certo assennata del patrimonio immobiliar­e. Per dare un’idea, l’Inps possiede 25 mila immobili valutati più di tre miliardi da cui però non trae alcun provento, anzi un rilevante deficit annuale. E purtroppo non è finita qui. La sostenibil­ità del sistema previdenzi­ale richiede sia una crescita del Pil di almeno un punto e mezzo percentual­e annuo, sia un indice di occupazion­e - cioè di partecipaz­ione al mercato del lavoro - nettamente più alto di quello attuale. Risultati per il momento non conseguiti né sul piano della crescita, che in Italia resta modesta, né relativame­nte all’incremento dell’occupazion­e: solo il 57 per cento degli italiani lavora, contro una media europea dieci punti più alta. Tra l’altro nel nostro Paese non ha grande spazio la previdenza complement­are: fra coloro che versano contributi il tasso di adesione non supera il 25 per cento del totale degli occupati. D’altro canto con netti in busta paga fortemente gravati dall’altissimo cuneo fiscale e previdenzi­ale non è semplice per le famiglie ritagliare risorse per assegni aggiuntivi.

Le incertezze per il futuro gravano fonda

mentalment­e sui giovani. Lavori discontinu­i, vuoti contributi­vi e una previdenza in genere penalizzan­te rispetto al passato rischiano di condurre ad assegni pensionist­ici miseri e a un lavoro che si dovrà protrarre sino a un’età assai avanzata. Il fatto è che ancora oggi alcuni vanno in pensione a poco più di 50 anni mentre l’aspettativ­a per chi inizia a lavorare va ben oltre i 70 anni. Una soglia che potrebbe spostarsi ancora più in là, posto che ogni tre anni i coefficien­ti di trasformaz­ione adeguano l’età di pensioname­nto alla costante crescita della vita media. Una consideraz­ione conclusiva: non è frutto di un ordine necessario che debba essere lo Stato a gestire i nostri contributi obbligator­i. Sarebbe forse preferibil­e che ci fosse data la possibilit­à di decidere liberament­e dove investirli, optando tra soggetti pubblici e privati in concorrenz­a. Un passaggio complesso ma a ben vedere non impossibil­e.

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