Il filo sottile su cui cammina Al Sisi
Riforme religiose contro l’islamismo radicale e repressione feroce del dissenso: è la strategia bifronte del presidente dell’Egitto. E la visita del Papa gli serve per mostrare un Paese «aperto».
Èla visita di un Papa al capezzale dei cristiani d’Oriente. Francesco arriverà in Egitto a fine aprile, dopo una Pasqua segnata dai massacri dell’Isis nella Domenica delle palme, con le chiese copte che rinunciato alle decorazioni e chiuso le sale di preghiera di solito piene di milioni di fedeli durante la veglia. I copti sono la più grande comunità cristiana in Medio Oriente, hanno duemila anni di storia e temono di far la fine dei fratelli iracheni, passati in un decennio da un milione e mezzo a 300 mila. La loro sopravvivenza è la stessa di un Egitto che guarda alla modernità, minacciato dalla follia medievale degli islamisti. Il presidente Abdel Fatah Al Sisi lo sa. Questa visita è importante per lui quanto per Francesco.
Dopo gli attentati, l’Egitto ha perso ancor più fiducia nel suo imponente apparato di sicurezza; Al Sisi ha annunciato «lo stato di emergenza per tre mesi». La sicurezza è
il cardine della sua politica, l’esercito il pilastro del suo potere, ma anche il suo freno. Da un lato il presidente vuole realizzare riforme in ambito religioso per contrastare gli estremisti islamici, perché il suo è un governo laico; dall’altro è il promotore di una durissima repressione dei suoi oppositori, soprattutto dei sostenitori dell’ex presidente Mohamed Morsi, espressione dei Fratelli musulmani. Con la conseguenza che molti di loro si sono radicalizzati. Ma nel giro di vite sono finiti anche «laici», sindacalisti. Il caso Regeni è lì a testimoniarlo. Al Sisi ha invitato gli studiosi di Al-Azhar, a «purgare dai suoi difetti» l’Islam. Negli ultimi anni ha licenziato 55 mila imam, accusati di diffondere idee radicali.ra Ora il ministero degli Affari religiosi ha in mano la gestione delle moschee, e ha licenziato gli islamisti che la Fratellanza aveva messo al vertice. Le linee guida dei sermonise del venerdì sono dettate dal governo. È un’azione ambiziosa che però non è riuscita a im
porsipo negli ambienti religiosi più conservatori. L’azione dei Fratelli musulmani è radicata, specie nelle campagne e nei quartieri degradati delle città, il «bacino» dove pescano i movimenti jihadisti. L’Isis ha costituito cellule, anche con ex combattenti di ritorno dalla Siria, al Cairo e nel Delta del Nilo. Ma la base operativa è il Sinai. L’adesione al Califfato del gruppo Ansar al-Bayt al-Maqdis ha permesso di radicarsi in un territorio dominato da tribù beduine fuori dal controllo governativo, e da lì destabilizzare tutto l’Egitto, demolendo l’altro pilastro del potere di Al Sisi, il sostegno dei copti. Finora il regime non ha saputo contrastarlo in modo efficace, anche perché, spiega l’analista dell’Atlantic Council, Karim Mezran, «quella di Al Sisi è una dittatura militare che non dà spazio al dissenso. E le politiche di riforme sono solo piccoli passi di un autocrate egocentrico».
Nella loro sfida ad Al Sisi, opposizione islamica e jihadisti sfruttano la crisi economica. Il rais si trova fra due fuochi. Gli alleati occidentali, con il Fondo monetario, gli chiedono riforme durissime per modernizzare uno Stato corrotto e inefficiente. In cambio ha ricevuto 12 miliardi di dollari per importare cibo e petrolio (cui vanno aggiunti altri 6 miliardi concessi da Cina, Emirati Arabi e altri). Ma la crisi non è rientrata: settore manifatturiero e turismo hanno frenato la crescita, la disoccupazione resta al 12,7 per cento, l’inflazione è al 30 per cento.
Questi dati possono essere visti anche come un passaggio doloroso verso un’economia in grado di reggersi sulle proprie gambe. Così come la «modernizzazione» di religione e società civile. Ma Al Sisi cammina su un filo sottile. Alcune sono operazioni di maquillage del potere, altre segnalano una volontà di riforma. All’inizio 2017 il governo ha presentato un disegno di legge sul divorzio: prevede che siano coinvolti sia il marito che la moglie, mentre ora, in base alla sharia, basta la decisione dell’uomo. Organizzazioni della società civile e il Consiglio nazionale per le donne stanno facendo pressioni in Parlamento per una legge che garantisca i diritti di successione alle egiziane. E il ministero della Religione a febbraio ha annunciato la nomina di 144 predicatrici che prenderanno il posto in diverse moschee a partire da marzo. Le tensioni verso una maggiore liberalizzazione
cercano di rompere i tabù conservatori. Ma ora la stretta sulla sicurezza rischia di compromettere tutto. E anche la comunità cristiana è preoccupata. Il Papa copto Tawadros II, dopo le stragi, ha riaffermato che «l’Egitto è unito» al di là delle differenze religiose. Lo stesso concetto ribadito da Francesco. Ma l’immagine del leader copto, piegato dal dolore nella cattedrale di Alessandria macchiata dal sangue, dice di più sul vero stato d’animo del Paese.