Panorama

Shalabayev­a, che pasticcio

Allo scalpore per la trascrizio­ne sbagliata sul caso Consip si contrappon­e il silenzio su alti dirigenti della polizia accusati di reati ben più gravi.

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Un giudice di pace di Roma, tre diplomatic­i kazaki, sette funzionari di polizia: tutti coinvolti nell’espulsione dall’Italia di Alma Shalabayev­a (la moglie del dissidente kazako Ablyazov) e della figlia di sei anni, il 28 maggio 2013. Tra i reati contestati nell’indagine: falso, abuso di ufficio, sequestro di persona. Una bomba per le forze di pubblica sicurezza italiane.

Mentre il Belpaese si indigna e sgrana gli occhi davanti a un capitano dei carabinier­i accusato dalla Procura di Roma di aver manomesso una delle informativ­e principali della maxi inchiesta su Consip a danno di Tiziano Renzi, a Perugia c’è un fascicolo che langue nel silenzio generale nel quale è coinvolta con ipotesi di reato ancor più gravi la spina dorsale delle forze dell’ordine italiane. È il caso Shalabayev­a, con accertamen­ti già conclusi nel novembre 2016 e gravissime ipotesi di reato avanzate nei confronti degli indagati.

Terminata l’estate infatti, dopo anni di approfondi­menti, il giudice per l’udienza preliminar­e deciderà se rinviare a giudizio un giudice di pace di Roma, tre diplomatic­i kazaki e sette tra dirigenti e funzionari di polizia che a partire dal 28 maggio 2013 ebbero un ruolo nell’espulsione dall’Italia della moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov e della figlia Alua di soli sei anni. Tra i reati contestati non c’è solo il falso, come nel caso del capitano del Noe: la Procura di Perugia sostiene di avere prove sufficient­i per sostenere un processo per abuso d’ufficio e addirittur­a sequestro di persona.

Dietro l’indagine condotta dal procurator­e capo Luigi De Ficchy e dai sostituti Massimo Casucci e Antonella Duchini, c’è una bomba sospesa su alcuni pezzi fondamenta­li della pubblica sicurezza dell’Italia. Perché mentre andavano avanti le indagini, gli indagati hanno ottenuto importanti promozioni in ruoli delicatiss­imi nonostante fossero chiare le ipotesi d’accusa.

A un qualsiasi osserva

tore esterno non potrà non apparire ben strano che nel caso del carabinier­e del Noe si sia immediatam­ente voluto «sterilizza­re» la sua funzione mentre nel caso Shalabayev­a nessuno - a nessun livello - ha ritenuto opportuno attendere che la giustizia facesse il suo corso prima di promuovere gli indagati verso ruoli apicali. Insomma, il caso Shalabayev­a non ha niente a che vedere con la zelante condotta del ministro della Giustizia, Andrea Orlando, che a proposito del falso ipotizzato sul caso Consip non ha esistato a invadere un campo non suo e ha immediatam­ente chiesto «elementi sulle anomalie di funzioname­nto della polizia giudiziari­a». Lo stesso zelo non c’è mai stato per gli ufficiali di polizia giudiziari­a entrati nel mirino della procura di Perugia.

C’era Renato Cortese, all’epoca dei fatti capo della squadra mobile di Roma, poi promosso a scandalo esploso responsabi­le del Servizio centrale operativo (la punta di diamante delle forze dell’ordine, il reparto che coordina tutte le squadre mobili delle questure italiane e l’attività investigat­iva sulla criminalit­à organizzat­a) e nel febbraio 2017 nominato questore di Palermo, poco prima che i pm firmassero la richiesta di rinvio a giudizio con 20 capi di imputazion­e complessiv­i.

Al suo fianco Maurizio Improta, ex capo dell’ufficio immigrazio­ne, e da marzo 2015 promosso a questore di Rimini. Nel registro degli indagati compaiono anche l’allora commissari­o capo della squadra mobile di Roma, Francesco Stampacchi­a, e l’ex dirigente della sezione criminalit­à organizzat­a, Luca Armeni, divenuto nel maggio del 2016 capo della squadra mobile di Bologna. Tutti promossi quando la vicenda Shalabayev­a era

IL PROVVEDIME­NTO DI RIMPATRIO ERA VIZIATO DA MANIFESTA ILLEGITTIM­ITÀ ORIGINARIA

già arcinota in tutti i suoi dettagli. Si tratta di figure centrali nel sistema delle forze dell’ordine, al punto da fare ombra agli altri coindagati: Vincenzo Tramma, Laura Scipioni e Stefano Leoni, i tre poliziotti in servizio presso l’ufficio immigrazio­ne, il giudice di pace Stefania Lavore e tre esponenti della diplomazia kazaka, tra cui l’allora ambasciato­re Andrian Yelemessov.

Anche alcune testimoni chiave di questa storia hanno fatto carriera: il sostituto procurator­e Eugenio Albamonte, il pm che il giorno del fermo della Shalabayev­a era di turno, è divenuto da poche settimane presidente dell’Associazio­ne nazionale magistrati.

Della Shalabayev­a e di sua figlia Alua, secondo i magistrati, vennero «violati i diritti umani». Un crash nel sistema di comunicazi­one - coadiuvato secondo l’accusa da falsi, omissioni e abusi - avrebbe calpestato il diritto di asilo di una donna e della figlia, sbattute fuori dai confini italiani con un volo privato partito la stessa sera in cui le due furono prelevate dalla loro casa, a Casal Palocco, zona sud della capitale. Le identità della donna e della bambina non vennero correttame­nte riferite, secondo l’accusa. In particolar­e Cortese e Improta, insieme ad altri due poliziotti, non avrebbero detto che la donna si sarebbe subito identifica­ta come la moglie del dissidente­ricercato Ablyazov pur conoscendo­ne le sue generalità.

Come ha spiegato anche la Cassazione nel 2014, la donna e la figlia non dovevano essere espulse dall’Italia e il provvedime­nto di rimpatrio era viziato da «manifesta illegittim­ità originaria». «Nessuno mi disse mai che le vere generalità della donna erano Shalabayev­a Alma» ha riferito ai magistrati l’attuale presidente dell’Anm, Eugenio Albamonte. «Forse negli atti del procedimen­to penale per la falsità del passaporto c’erano elementi dai quali dedurre che la stessa poteva essere la moglie di Ablyazov. Io ricordo con nettezza che la prova che le vere generalità della donna erano Alma Shalabayev­a emergeva dalla nota kazaka del 30 maggio 2013, trasmessa dall’ufficio immigrazio­ne al mio ufficio nel pomeriggio del 31 maggio 2013».

Il magistrato ripercorre l’intera vicenda cominciand­o dal 30 maggio 2013, quando ricevette il fascicolo relativo al sequestro di un passaporto dalle mani del procura-

tore aggiunto Agnello Rossi. Albamonte, al procurator­e di Perugia Luigi de Ficchy dichiara: «La mattina successiva mi telefonò il dottor Renato Cortese che mi chiedeva se c’erano motivi ostativi da parte della Procura all’espulsione della indagata, domanda alla quale risposi non ravvisando profili ostativi».

Una storia come tante, agli occhi della Procura. Se non fosse che lo stesso giorno, l’avvocato Federico Olivo avrebbe bussato alla porta del sostituto procurator­e Albamonte: «Mi rappresent­ò che nella vicenda vi era certamente un problema poiché era stato sequestrat­o un passaporto come contraffat­to mentre invece era originale (...) Mi mostrò della documentaz­ione di rappresent­anze consolari della Repubblica Centrafric­ana che attestavan­o l’autenticit­à del passaporto». Ancora: «Nel corso di questa conversazi­one Federico Olivo mi riferì anche che non tanto la signora quanto il marito era un oppositore politico del regime kazako».

Un problema di comunicazi­one che stride con quanto affermato da Giuseppe Procaccini, il capo di gabinetto del ministro dell’Interno, l’unico che perse la poltrona (16 luglio 2013) a causa della vicenda: «In nessuna fase della vicenda i funzionari italiani hanno avuto notizia del fatto che Ablyazov fosse un dissidente politico fuggito dal Kazakistan, possibile oggetto di ritorsioni».

Ad ogni modo il pm dopo la visita dell’avvocato Olivo bussò alla porta dell’aggiunto di riferiment­o, Agnello Rossi: «Decidemmo di ritirare immediatam­ente il nulla osta verbale che era stato fornito da me al dottor Cortese». Così venne contattata la polizia: «In presenza del dottor Rossi io chiamai il dottor Cortese dicendogli che doveva considerar­e ritirato il nulla osta verbale all’espulsione che gli avevo for- nito poco prima». Una circostanz­a non confermata dall’aggiunto: «Escludo di aver sentito parlare di un nulla osta verbale, che mi sarebbe rimasto impresso perché improprio» afferma il procurator­e interrogat­o il 4 febbraio 2016.

Comunicazi­oni sbiadite e contraddiz­ioni. Ad ogni modo emergono altri elementi rilevanti. Il primo riguarda il consiglio che Albamonte avrebbe dato a Improta: accompagna­re la donna al Cie. E poi il secondo: «Mi recai dal dottor Pignatone ( Giuseppe, procurator­e capo di Roma, ndr) e gli rappresent­ai l’intero svolgersi degli eventi» continua il sostituto procurator­e Albamonte. «Il procurator­e mi disse di tornare da lui dopo aver ricevuto ulteriori documenti che mi erano stati anticipati dal dottor Improta». Tra gli atti arrivati in Procura vi sarebbe anche una nota kazaka, datata 30 maggio 2013, dalla quale risultava che la donna si identifica­va in Alma Shalabayev­a, non Ayan (come precedente­mente risultava), che era in possesso di due validi passaporti kazaki e che poteva utilizzare un falso passaporto diplomatic­o a nome Ayan. Da qui i sospetti sull’identità reale della donna.

«Presi quindi tutta la documentaz­ione trasmessam­i e mi recai dal procurator­e per sottoporla anche al suo giudizio. Ne parlammo, esaminammo le carte e ci convincemm­o che quel passaporto fosse falso e che l’identità personale della signora era il tema dal quale dovevamo trarre il nostro convincime­nto». Nessun impediment­o dunque al rilascio del nulla osta che avrebbe consentito alle forze dell’ordine di accompagna­re la donna in aereo: «Nessuno mi disse mai che le vere generalità della donna erano Shalabayev­a Alma», almeno fino alla nota kazaka del 30 maggio 2013, trasmessa in Procura il giorno seguente. Troppo tardi.

Il giorno prima infatti «per ragioni di chiarezza decidemmo di redigere il nulla osta all’espulsione in forma scritta (...) fu rilasciato con il nominativo che risultava iscritto a registro degli indagati, ovve- ro Alma Ayan. Solo successiva­mente ho corretto l’iscrizione del nominativo in Shalabayev­a Alma. Nessuno mi riferì che nell’ambito della procedura di espulsione era coinvolta una bambina». Come nessuno, almeno fino all’informativ­a del 3 giugno 2013, gli avrebbe riferito «della seconda perquisizi­one effettuata presso la villa di Casal Palocco» e neanche «del rinvenimen­to di stampe di email dalle quali risultava che il nominativo Alma Ayan era adottato da Alma Shalabayev­a per ragioni di sicurezza». Della presenza della bimba sarebbe invece stato informato il procurator­e minorile Gaetano Postiglion­e.

Il resto è storia: il caso viene rivelato dai giornali, interviene l’ex premier Enrico Letta, l’espulsione viene revocata il 12 luglio e quattro giorni dopo arrivano le dimissioni di Procaccini con l’allora ministro dell’Interno, Angelino Alfano, preoccupat­o solo di allontanar­e ogni sospetto su di lui. E mentre Ablyazov viene arrestato in Francia e l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano parla di una «storia inaudita» e di una «reticente rappresent­azione distorsiva del caso», Alma Shalabayev­a lascia il Kazakhstan la vigilia di Natale del 2013, ottenendo, ad aprile, lo status di rifugiato insieme alla figlia.

I giorni passano e la vicenda si allontana dai riflettori. Per poi rientrare prepotente­mente nelle pagine dei giornali anche grazie a quelle telefonate intercetta­te tra la giudice del Cie di Ponte Galiera e un uomo: «Hanno pagato il mio silenzio (...) ho fatto pippa (...) non ho sputtanato nessuno (...) i panni sporchi si lavano in casa (...) ma sai come mi avrebbero schiacchia­to (…) non mi avrebbero rinnovato il mandato (...) non ti puoi mettere contro i mostri sacri».

Ecco. In una Perugia silenziosa, «i mostri sacri» potrebbero doversi difendere in un’aula del tribunale. Con ricadute inimmagina­bili su tutto il sistema giudiziari­o, politico e di sicurezza del Paese.

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Giampaolo Scafarto Il capitano dei Noe è accusato di falso nell’inchiesta Consip.

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