Panorama

I nuovi assassini del Califfato

Li chiamano leoncini. Sono stati reclutati quando erano ancora bambini. I killer di Al Qaeda, indottrina­ti e poi addestrati a uccidere, hanno decapitato i nemici come se fosse un gioco. E molti di loro non provano né dolore né pentimento per ciò che hanno

- di Anthony Loyd

Il detenuto era un arabo adulto, in manette, a piedi nudi e sconfitto.

Capii che aveva perso molto peso da una foto che lo ritraeva già prigionier­o diffusa 14 mesi prima, a breve distanza dalla sua cattura per mano del Ctg, il gruppo antiterror­ismo curdo. La sua cella era isolata, lunga quanto basta per sdraiarsi e larga appena a sufficienz­a per sedersi a gambe incrociate. Pisciava in una bottiglia che riponeva per terra di fianco a una coperta e passava il tempo a fissare un muro coperto di graffiti. Fatti con le unghie. Era seduto a una scrivania, di fronte a me, in una stanza spoglia adiacente al blocco delle celle. Con noi c’erano un interprete e il responsabi­le della sezione detenuti speciali, in piedi in disparte. Era presente anche un agente dell’intelligen­ce curda, seduto in fondo alla stanza. Chiesi se il detenuto era stato torturato. Sì.

Il nome completo del prigionier­o era Ali Khatan Abdul Wahab Mahmoud. Primo di otto figli, suo padre faceva il contadino e il bidello in un villaggio alle porte di Hawija, una cinquantin­a di chilometri a ovest di Kirkuk. Aveva 13 anni quando si è unito alle milizie di Al Qaeda in Iraq. Ha compiuto la sua prima esecuzione a 15 anni, sparando con una pistola a un ostaggio, il poliziotto Hussein Khaled Ahmed sotto lo sguardo delle reclute, altri adolescent­i. A 19 anni ha decapitato uno dopo l’altro con un coltello cinque prigionier­i, combattent­i curdi, incatenati a terra fianco a fianco.

In Iraq e Siria ci sono migliaia di Ali Khatan, bambini a cui il califfato ha piantato in testa il seme di un’ideologia secondo cui l’omicidio è un passo verso il paradiso. Per lo Stato islamico questi bambini non

sono solo giustizier­i. L’Isis ha infatti pianificat­o il reclutamen­to e l’addestrame­nto in modo da assicurars­i che la prossima generazion­e di giovani jihadisti prosegua la lotta del Califfato. Questa concezione risale probabilme­nte al sistema di reclutamen­to dei bambini dell’Impero ottomano, rivisitato alla luce dell’indottrina­mento di Saddam Hussein negli anni ’90 su quelli che vennero chiamati Ashbal Saddam, i leoncini di Saddam.

L’intensità degli sforzi compiuti dallo Stato islamico per fare di questi bambini degli estremisti non ha eguali: sono migliaia i ragazzini coinvolti, sul bacino di un milione e mezzo di minori che si stima vivano ancora nei territori del Califfato, tra Iraq e Siria.

«Dobbiamo fare i conti con bambini che non solo sono stati sottratti alle loro famiglie per imbracciar­e armi e lanciare attacchi» spiega Nikita Malik, coautore di

The children of islamic State, uno studio sullo sfruttamen­to di bambini e adolescent­i da parte dei gruppi del terrore.

«A questi piccoli è stata anche da

ta una causa, un’ideologia, e sulla loro formazione sono stati effettuati investimen­ti molto ingenti. Un investimen­to di tale portata sulla prossima generazion­e» continua Malik «ha senso dal punto di vista strategico, perché conquistar­e la lealtà sempiterna di una persona che attraversa una fase così vulnerabil­e della vita significa porsi al comando di un’intera generazion­e di combattent­i micidiali e profondame­nte traumatizz­ati di cui potrete approfitta­rvi e a cui riuscirete a far compiere atti di una violenza estrema».

Alcuni di loro, come Ali Khatan, sono entrati in contatto con Al Qaeda in Iraq negli anni dell’adolescenz­a, rimpolpand­o le file delle milizie dell’Isis in seguito alla conquista di Mosul nel giugno 2014.

Altri, invece, sono stati reclutati ancora bambini per finire nei reparti giovanili dell’Ashbal al-Khilafah, i leoncini del Califfato. Moltissimi altri, poi, usufruisco­no di un sistema educativo che fa capo al ministero dell’istruzione dell’Isis, il Diwan al-Ta’aleem, e studiano un programma dalla forte componente militare, intriso di odio e violenza. Molti sono già rinchiusi in strutture detentive sovraffoll­ate, rappresent­ate soprattutt­o dai vivai del Medio Oriente per la «radicalizz­azione incrociata», cosa che esclude qualsiasi prospettiv­a riabilitat­iva. Alcuni prigionier­i sono bambini delle elementari.

Ho ottenuto un permesso speciale per accedere a una struttura detentiva giovanile di Kirkuk, in cui sono reclusi 22 minori in attesa di processo per reati di terrorismo e altri 32 ragazzi autori di reato. Nella stessa struttura ho intervista­to il quindicenn­e Mohammed Ahmed Ismael, conosciuto come Abu Musab, un baby kamikaze di Mosul addestrato dall’Isis.

«A QUESTI PICCOLI È STATA DATA UN’IDEOLOGIA E SULLA LORO FORMAZIONE SONO STATI FATTI FORTI INVESTIMEN­TI» Su Panorama il meglio della stampa internazio­nale.

Nella notte del 22 agosto scorso il mondo ha conosciuto Mohammed, o quantomeno la sua smorfia di angoscia bestiale, immortalat­a da un’emittente locale mentre agenti segreti e poliziotti curdi a fatica gli strappavan­o di mano il detonatore e lo arrestavan­o a Kirkuk, con la cintura esplosiva ancora allacciata in vita.

Quella stessa notte, un altro baby kamikaze di 15 anni, cugino di Mohammed, si è fatto esplodere in un’altra zona di Kirkuk. Mohammed ha poi delineato un prezioso quadro del periodo antecedent­e a queste missioni, descrivend­omi i suoi primi due mesi di serrato addestrame­nto militare e ritiro religioso presso il campo per «leoncini» nella zona di al-Ghuzlan, a sud di Mosul.

Al termine dell’addestrame­nto, tra i 60 giovanissi­mi che avevano partecipat­o, 20 sono stati selezionat­i per missioni suicide e sono stati quindi trasferiti in un campo di Hawija per continuare l’indottrina­mento per altri due mesi. Descritto dalle guardie come un ragazzino pericoloso e impenitent­e, non appena ha messo piede qui Mohammed ha riunito attorno a sé altri giovani detenuti per istruirli sull’Islam radicale, tentando inoltre di organizzar­li nella preghiera.

I leoncini compagni di Mohammed hanno attirato l’interesse mediatico nel 2015 compiendo una serie di atrocità: nel gennaio di quell’anno venne diffuso un video in cui un giovane kazako sparava nella nuca a due prigionier­i in Siria. Era la prima volta che lo Stato islamico mostrava le riprese di un’esecuzione compiuta da un bambino.

A distanza di due mesi, in un altro video, un ragazzino francese giustiziav­a

un palestines­e accusato di essere una spia del governo israeliano, mentre a maggio un giovane russo trucidava un altro sospettato di spionaggio. Questi gesti sono stati compiuti a un ritmo sempre più serrato, acquisendo via via anche proporzion­i e platealità maggiori: nel giugno del 2015, 25 leoncini adolescent­i sono stati ripresi all’interno del teatro romano di Palmira nell’atto di sparare ad altrettant­i soldati filo-Assad.

A dicembre un nuovo video mostrava invece sei bambini che giocavano a guardie e ladri e scorrazzav­ano tra le rovine di un castello nella Siria orientale, facendo a gara a chi sarebbe arrivato per primo a uccidere uno dei prigionier­i che erano legati all’interno, senza via di scampo.

Alla volta del 2016 i filmati delle esecuzioni di prigionier­i effettuate da bambini erano divenuti una quotidiani­tà, e tra quelle file c’erano anche piccoli britannici. Nello scorso febbraio il bambino di quattro anni noto come Isa Dare fece saltare in aria un’automobile con tre prigionier­i, ripreso nel suo secondo filmato di questo genere.

Sei mesi più tardi, un altro minore britannico, uno dei quasi 80 che rimpolpano le milizie del califfato, compariva in un video in cui alcuni ostaggi curdi immobilizz­ati morivano sotto il fuoco di cinque bambini.

A poche settimane dall’avvio delle operazioni per la liberazion­e di Mosul, l’Osservator­io siriano per i diritti umani aveva annunciato che oltre 300 leoncini erano già caduti vittima del conflitto in corso.

«Non posso dire che fossimo felici, perché spesso avevamo paura e ci picchiavan­o» dice Mohammed, 15 anni, descrivend­o senza un sorriso il suo addestrame­nto. «Ma trovavamo conforto nel pensiero che saremmo andati in paradiso da martiri».

Alcuni di questi boia adolescent­i hanno addirittur­a trovato una certa gioia nel ricoprire questo ruolo. Ali Khatan afferma di essersi sentito «molto felice» dopo la decapitazi­one dei prigionier­i, e sperava in una ricompensa per la sua devozione alla via della Jihad.

«Quando mi sono affiliato» ha affermato «ci hanno fatto frequentar­e corsi di addestrame­nto su come massacrare le persone. Recitando noi stessi il ruolo di vittima e carnefice ci esercitava­mo per capire in che modo tenere ferma una persona, dove collocare il coltello e in che punto cominciare a tagliare, individuan­do la posizione più adatta».

Tutto questo poi si è tramutato in realtà. Sebbene fosse già abituato a combattere e avvezzo alla violenza, era la prima volta che l’adolescent­e tagliava la testa a qualcuno. Ciononosta­nte, ha dichiarato che non è stato faticoso né a livello fisico, né psicologic­o.

«Innanzitut­to si trattava di un ordine» ha affermato «e sapevo che lo stavo eseguendo in nome della Jihad, e che i prigionier­i erano murtad ( apostati dell’Islam, ndt). Gli istruttori l’avevano presentata come un’esperienza piacevole. I prigionier­i erano già pronti, in posizione prona, quindi non ho dovuto fare altro che estrarre il coltello e decapitarl­i. È stato facile».

Ha raccontato di avere impiegato mezz’ora per uccidere cinque uomini, di cui collocava la testa sul tronco del cada-

«MI HANNO DETTO: VAI IN MEZZO A LORO E FATTI ESPLODERE, MA NON SONO RIUSCITO A FARLO»

vere prima di passare a giustiziar­ne un altro. In attesa dell’imminente massacro, i prigionier­i non fiatavano. Lungo la fila, il mullah Shwan e altri tre hanno decapitato gli altri cinque detenuti.

All’età di 13 anni, Ali Khatan si è arruolato in Al Qaeda in Iraq ha pronunciat­o il suo bayat - il giuramento di fedeltà - a Mazen Mahmoud, che era presente quando il giovane ha ucciso per la prima volta una persona, un poliziotto vittima di un rapimento. La sua devozione alla Jihad era talmente grande che quando Ali Khatan si ritrovò, diciannove­nne, rannicchia­to nella foresta di Bagara, con il coltello in una mano e i capelli della vittima nell’altra, intento a tagliare teste, era convinto di fare la cosa giusta. «Eravamo fieri di quello che stavamo facendo», mi ha detto. «La Jihad era così radicata nelle nostre menti che non abbiamo mai avuto dubbi, né abbiamo mai pensato di essere nel torto».

L’Unicef è impegnata nell’elaborazio­ne di una strategia per rispondere alle esigenze di ogni categoria di bam

bini che hanno avuto a che fare con lo Stato islamico: non solo coloro che si sono messi al servizio del califfato macchiando­si anche di crimini, ma anche quelli che sono stati esposti all’ideologia dell’Isis a scuola o nella vita quotidiana. Il piano ha l’obiettivo di fornire assistenza psicologic­a a più di 160 mila bambini iracheni - molti dei quali hanno vissuto in aree controllat­e dallo Stato islamico - che sono rimasti traumatizz­ati. Tuttavia, il problema è così vasto che le risorse rischiano di non essere sufficient­i. Tra i 12 assistenti sociali che hanno operato ad Hasansham in dicembre, alcuni dovevano gestire 30 casi di bambini ciascuno, molti dei quali necessitav­ano di visite quotidiane.

A volte ci volevano settimane solo perché un bambino traumatizz­ato riprendess­e a parlare. L’Unicef intende contrastar­e gli effetti che l’ideologia radicale esercita sulle menti dei bambini in Iraq intervenen­do a livello educativo. Uno degli insegnamen­ti che Ali Khatan aveva ricevuto da piccolo era che l’uccisione dei non-credenti rappresent­ava la via verso la santità. Gli esperti sulla tutela dei minori convengono che sfatare i miti dello Stato islamico instillati nelle menti dei bambini sia un aspetto essenziale del processo di redenzione e che dovrebbero essere gli insegnanti ad accollarsi tale compito.

Ciononosta­nte, anche nei casi più gravi è possibile trovare segnali nascosti della resistenza all’indottrina­mento. Persino il giovane Mohammed di Kirkuk, a soli 15 anni, voleva diventare un kamikaze ed era già un jihadista di rilievo, dopo che anche suo padre e suo zio erano stati combattent­i dell’Isis e lui era stato scelto per compiere una missione suicida al termine di un addestrame­nto intensivo durato diversi mesi. Un soldato più anziano dell’Isis, Dureed, lo aveva accompagna­to fino all’obiettivo, la folla accalcata fuori da uno stadio di calcio, e lui sapeva che suo cugino, anche lui adolescent­e, era per le strade di quella stessa città per portare a termine una missione del tutto analoga. Ma quando arrivò il momento di farsi esplodere, Mohammed ha capito che non poteva farlo.

Fissandomi in modo severo con due occhi neri impenetrab­ili mi ha detto: «Ho esitato. Dureed continuava a farmi pressione e diceva “Vai là in mezzo a loro e fatti esplodere”, ma c’era una voce dentro di me che opponeva resistenza. Non sono riuscito a farlo». Ali Khatan non ha avuto dubbi di questo tipo. Poco dopo la decapitazi­one dei cinque peshmerga ha accettato una missione sotto copertura a Kirkuk per conto dello Stato islamico, con l’obiettivo di fondare una cellula e pianificar­e attacchi alla città. Si è infiltrato in un gruppo di civili della zona spacciando­si per profugo.

Gli agenti dell’intelligen­ce riferiscon­o che abbia vissuto per un certo periodo nel campo per sfollati interni (i cosiddetti Idp) fuori da Kirkuk. Pare che dai controlli all’arrivo nel campo, obbligator­i per tutti i nuovi ospiti di sesso maschile ed etnia araba, non sia emerso alcun indizio della sua affiliazio­ne allo Stato islamico.

Solo verso la fine del 2015 gli agenti del Ctg hanno avuto notizia dell’esistenza di una nuova cellula dell’Isis a Kirkuk, da cui è scaturita l’operazione che ha condotto all’arresto di Ali Khatan. Nel corso di ulteriori indagini, una fonte all’interno di Hawija ha poi fornito all’intelligen­ce i dettagli del coinvolgim­ento di Ali nelle decapitazi­oni. Gli ho chiesto se fosse stato torturato. «Hanno usato i loro metodi con me perché all’inizio, quando mi hanno preso, mi sono rifiutato di parlare. E loro mi hanno fatto parlare».

Aveva una voce mono tono, completame­nte svuotata di qualsiasi sentimento. L’unica occasione in cui ha mostrato un’emozione vera è stato quando gli ho chiesto se, avendone la possibilit­à, volesse riallaccia­re i contatti con l’Isis.

Mi ha risposto «È impossibil­e!» con un moto di improvvisa angoscia che somigliava alla nostalgia di un amore perduto.

Poi però, mi ha detto che provava rimorso. «Ora ho dei dubbi. Mi sono pentito. So che quello che ho fatto è sbagliato» ha detto fissando il pavimento. «È iniziato tutto quando mi hanno catturato, ci ripenso ancora. Mi ripeto: “Hai ucciso quegli uomini per niente”, qui ho tempo di riflettere e ripensare a ciò che ho fatto».

Era un rammarico sincero o sempliceme­nte quello di chi è finito in carcere in Iraq per omicidio plurimo e partecipaz­ione ad associazio­ne terroristi­ca?

Me ne sono andato con la consapevol­ezza che, una volta giunto il giorno del processo, Ali Khatan non avrebbe potuto evitare la pena di morte.

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Il momento dell’arresto del giovane Mohammed Ahmed Ismael a Kirkuk, nel 2016.
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