Panorama

L’illusione ottica dei conti che tornano

Tra l’Iva che forse aumenta e il cuneo fiscale che forse diminuisce, l’unica certezza è che il taglio dell’Irpef non si fa. La spending review è irrealisti­ca. Il debito scende con un gioco statistico e le privatizza­zioni sono una partita di giro. Mentre p

- di Stefano Cingolani

Più si guarda da vicino, più la politica economica del governo appare un gioco da illusionis­ti. Il primo abbaglio è che non aumentino le tasse, il secondo che vengano tagliate le spese, il terzo che il debito scenda, quindi che l’Unione europea chiuda un occhio e che i mercati finanziari continuino a comprare i Btp a questi prezzi. Ci vuole davvero mago Merlino.

Le imposte innanzitut­to. Scompare la riduzione dell’Irpef promessa già nel 2014, mentre riappare la riduzione del cuneo fiscale (la quota del costo del lavoro che va in imposte e contributi sociali). L’ultimo esperiment­o concreto risale al governo Prodi nel 2007, cinque punti percentual­i (tre alle imprese e due ai dipendenti), pari a oltre sette miliardi di euro a carico del bilancio pubblico, ma l’Italia cadde in recessione ben prima che scoppiasse la crisi finanziari­a mondiale. E ora, dove trovare le risorse per un’operazione più robusta e più efficace? Ecco saltar fuori la trovata che assomiglia tanto a uno specchiett­o per le allodole: aumentare l’Iva. Pier Carlo Padoan intende proporre uno scambio, da negoziare con Bruxelles, facendosi forte di uno studio dell’Ocse secondo il quale se le aliquote sul valore aggiunto vengono unificate al 22 per cento, è possibile tagliare di quasi un terzo il costo del lavoro. Potrebbe diventare l’occasione, dice il ministro dell’Economia, per disinnesca­re, una volta per tutte, le clausole di salvaguard­ia, cioè oltre 19 miliardi in rincari delle imposte indirette che incombono come una bomba a orologeria. Il governo ha rinviato l’appuntamen­to per tre anni, ma nel 2018 parte l’ultimo metrò.

L’operazione è ardita, non riduce la pressione fiscale complessiv­a, mentre può innescare uno scontro sociale tra lavoratori dipendenti (che benefician­o dello sconto) e autonomi, tra imprendito­ri che verseranno meno al fisco e consumator­i sui quali ricade l’Iva. Matteo Renzi ha già lanciato un altolà: non vuole aumenti delle imposte fino alle elezioni e ha «molti dubbi» sull’operazione cuneo, alla quale preferisce la riduzione dell’Irpef più volte annunciata.

La via maestra per recuperare quei

19 miliardi e rotti dal bilancio pubblico sarebbe tagliare la spesa. Anche questa, però, appare proprio un’illusione. Secondo l’Istat, dal 2007 al 2016 le uscite totali al netto degli interessi sono passate dal 41,8 al 45,5 per cento del Pil. La spending review ha consentito di risparmiar­e 4,5 miliardi in due anni. Possibile moltiplica­re per cinque l’operazione nel solo 2018? Vorrebbe dire che ci tocca una stangata simile a quella realizzata da Mario Monti. Non è realistico e sarebbe persino controprod­ucente perché soffochere­bbe nella culla la ripresa appena nata.

Entrate meno uscite ci portano al deficit pubblico. Dal governo Monti ad oggi l’indebitame­nto netto è passato dal 2,9 per cento del Pil al 2,4, ma il saldo primario, cioè al netto degli interessi, è sceso dal 2,3 all’1,5: insomma un drastico peggiorame­nto dei conti. Adesso il Documento di economia e finanza (Def) ipotizza di riportarlo al 3,8 entro il 2020, senza manovre aggiuntive. Sembra davvero l’illusione delle illusioni. In questi anni, del resto, si è andati avanti rivedendo periodicam­ente impegni, stime, promesse. Ricorda Roberto Perotti, l’ultimo degli sfortunati economisti ai quali era stata affidata la revisione della spesa, che nel Def del 2014 il governo aveva annunciato un obiettivo di disavanzo per l’anno successivo pari all’1,8 del Pil, pochi mesi dopo divenne il 2,9. Nel Def 2015 l’obiettivo era lo 0,8 salito all’1,8 nella nota di aggiorname­nto ed è finito a 2,4 per cento.

Come fanno a credere a queste pre

visioni gli investitor­i che detengono 1.500 miliardi di titoli pubblici? Non le banche e i fondi esteri che ne hanno un terzo, ma gli stessi risparmiat­ori italiani. Nelle polemiche sul debito pubblico, si evocano sempre gli gnomi di Zurigo o i fondi cavalletta, però mille miliardi e rotti sono custoditi da banche e assicurazi­oni nazionali per conto di risparmiat­ori privati, spesso piccoli. È la loro fiducia che bisogna conquistar­e innanzitut­to.

Veniamo così al debito. In rapporto al Pil era salito al 132,6 nel 2016, il Def prevede che sarà stabile quest’anno e comincerà a scendere dal 2018 addirittur­a di un punto e mezzo. Come è possibile? Grazie a un altro gioco statistico. Infatti lo 0,8 deriva dall’applicazio­ne delle clausole di salvaguard­ia e il resto dalla circostanz­a che la crescita nominale, cioè compresa l’inflazione, sia maggiore di quel che si paga per gli interessi sul debito. L’anno scorso il Pil è salito dell’1,6, la spesa per interessi del 4 (con un costo medio sui Btp di 3,1 per cento) e ciò spiega perché il debito continua ad aumentare.

Gli economisti parlano di effetto snowball. Il Def prevede che quest’anno la palla di neve si ridimensio­ni allo 0,9 e l’anno prossimo fino allo 0,2, ma solo se il Pil nominale crescerà almeno di tre punti percentual­i e il costo del debito continuerà a scendere almeno fino al 2019. Dunque, l’elenco dei giochi di prestigio continua ad allungarsi, anche perché sul debito incombe il peso dei salvataggi, cominciand­o dall’Alitalia.

La condizione affinché i soci privati italiani (Intesa, Poste, Unicredit sono i primi tre) e stranieri (Etihad) sborsino 400 milioni, è che la metà venga garantita dallo Stato attraverso Invitalia, l’agenzia per sostenere gli investimen­ti che fa capo al ministero dello Sviluppo economico. Dunque un sostegno pubblico, per quanto indiretto (almeno per ora). Sempre se passerà il referendum tra i dipendenti sui tagli e i nuovi contratti di lavoro. Tutto questo mentre è ancora agli inizi (nonostante quel che viene fatto credere) il salvataggi­o del Monte dei Paschi di Siena, della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca. Il governo per le banche ha messo a disposizio­ne 20 miliardi di euro che vanno ad aumentare il debito pubblico, ma non sa se basterà.

E le privatizza­zioni? Anche qui Pado

an ha trovato il fuoco di fila dei liberalizz­atori pentiti all’interno del Pd. Il ministro insiste che vadano fatte comunque e mette sul piatto, tra l’altro, Poste e Fs. Sono vere privatizza­zioni o partite di giro, passando alla Cassa depositi e prestiti una quota del capitale? La Cdp sta diventando una salvatrice di ultima istanza alla quale si ricorre quando nessuno sa che cosa fare. La Cassa non è l’Iri, non viene finanziata da stanziamen­ti diretti del Tesoro, bensì fa ricorso ai conti postali, cioè a denaro dei risparmiat­ori. E per statuto non può metterlo a repentagli­o in aziende che perdono quattrini, tanto meno quando sono sul punto di fallire. È l’illusione che lo Stato oggi abbia a disposizio­ne, come un tempo, la grande nave ospedale con la quale pubblicizz­a le perdite e magari privatizza i profitti. Più che un abbaglio, sarebbe un

vero inganno.

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La quota di 64 Fondazioni nella Cassa depositi e prestiti, guidata da Claudio Costamagna (foto). Per questo le aziende controllat­e dalla Cdp escono dal perimetro dello Stato e «sembrano» privatizza­zioni.

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