Panorama

PERCHÉ NON BASTA L’INNO ALLA GIOIA

- Di Giorgio Mulè

Senza andare a caccia nel grande libro delle citazioni, sarà sufficient­e richiamare un motivetto di qualche anno fa che recitava «se bastasse una sola canzone…» per dare il senso di quanto sta accadendo dopo la vittoria di Emmanuel Macron in Francia. La canzone in questione (senza offesa per Beethoven) è l’Inno alla Gioia che risuonava domenica 7 maggio mentre il neo presidente guadagnava il palco con una studiata scenografi­a nella piazza del Louvre, dopo il trionfo elettorale. La scelta di accompagna­re i primi passi del suo mandato con l’inno adottato dall’Europa ha avuto in casa nostra l’effetto di far dimenticar­e in pochi secondi quanto detto in questi anni a proposito dell’Unione. È stato sufficient­e il tempo di quattro battute musicali e 15 note per cancellare riserve e recriminaz­ioni, superficia­li analisi e dolose distrazion­i dell’Ue. Se bastasse una sola canzone sarebbe così. Ma non è con una strofa musicale che si sciolgono i nodi dell’immigrazio­ne o del sistema bancario, delle politiche di bilancio o dell’austerità per non parlare della difesa comune contro il terrorismo. In Italia, invece, è stato un giubilo nel salutare l’era Macron come un cambiament­o di paradigma per l’Europa. Non sarà così. Perché il neo presidente si affretterà a stringere un nuovo patto con la Germania che non a caso è stata scelta come prima visita all’estero: lo farà con Angela Merkel nel nome di un’Europa unita, figurarsi, ma avrà al centro, come già accaduto in passato con Hollande, unicamente gli interessi delle due nazioni. Con buona pace dell’Europa che di questo passo continuerà a intonare il suo requiem, altro che Inno alla Gioia. Questo, che è molto più di un’eventualit­à, sarà lo scenario prossimo venturo. I problemi italiani, di questa Italia «affaticata», come la fotografa nella sua intervista a Panorama Silvio Berlusconi, non saranno affatto risolti. Non possiamo importare visioni e illusioni che non ci apparten

gono con l’inganno di specchiarc­i nel rinascente patto franco-tedesco. Occorre una visione che parta dalle necessità, anzi meglio dalle urgenze dell’Italia. Il Cavaliere individua nel contrasto alla povertà la prima e più importante di queste priorità e offre la sua ricetta per aggredirla. Perché è lì, nella sacca dell’insoddisfa­zione se non della disperazio­ne, che crescono e si moltiplica­no i consensi per i disfattist­i guidati da Beppe Grillo o di quelli che abbandonan­o per sfinimento il campo della partecipaz­ione elettorale. Prosciugar­e questo acquitrino di infelicità equivale a ridare fiducia al Paese, a tagliare le unghie dell’antipoliti­ca. Si può e si deve fare senza recepire improvvisa­te ricette di tipo macronisti­co, senza scimmiotta­re modelli non replicabil­i. Sulla povertà, Berlusconi spiega la sua ricetta liberale che - ed è questa la novità - poggia su una fortissima base solidarist­ica senza essere stupidamen­te aggressiva per chi vive nel benessere; Grillo straparla di reddito di cittadinan­za che alla fine sarebbe finanziato con una gigantesca e ottusa patrimonia­le; Matteo Renzi nell’ansia inconclude­nte di inseguire i 5 Stelle gioca con le parole e al reddito di cittadinan­za oppone il lavoro di cittadinan­za. Formula bellissima, come fu il Jobs act. Ecco, anche no.

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