IL CRITICO CHE DIVENNE UN’OPERA
Breve cronistoria dei momenti topici sgarbiani
ha donato: uno Sgarbi in versione Federico da Montefeltro.
Introdotto dai tamburi dei monaci
tibetani del maestro buddista Fausto Taiten Guareschi, Sgarbi è per una volta arrivato puntuale e ha abbracciato il Bodoni dell’editoria, Ricci, padrone di casa ma soprattutto suo primo datore di lavoro che nel 1980 lo pagava 180 mila lire per ogni cartella da lui scritta, mentre le tariffe erano di 10 mila. Ricci, che si dice abbia chiesto allo scrittore argentino Jorge Luis Borges quale fosse il più grande labirinto del mondo e da Borges si sia sentito rispondere «è il deserto», ne ha costruito uno, ma solo con Sgarbi dice di perdersi: «Per me è un uomo che va al di là del bene e del male. Ha bisogno di un avversario ma, credetemi, è la passione che lo agita».
C’è del vero. Per Sgarbi è la contraddizione la maieutica per partorire pensieri audaci così come la polemica è la sua proteina sin da quando, nel 1989, al
si rivolse al critico Federico Zeri così: «Lo voglio vedere morto», per poi gridare, quando Zeri morì davvero, «Lo voglio vedere vivo». E sarà per rafforzare il suo romanzo di formazione ma è Sgarbi stesso a raccontare di aver litigato anche al suo esame di laurea («ma mi diedero ugualmente 110 e lode»); che il duello verbale è come il pugilato («ma poi si scende e si va a bere insieme»); che naturalmente solo lui è un illuminista («quando parlo di ragione significa che solo io ho ragione»), e che ai nemici porge solo questa preghiera: «Vi prego, non passate dalla mia parte».
È stata dunque più che una sorpresa ma un vero muro caduto l’arrivo di Roberto D’Agostino, il direttore del sito Dagospia che si è presentato con una giacca fantasiosa su cui erano applicate falci e martelli («in onore dell’ultimo comunista rimasto, Vittorio») e per tutto il tempo ha coccolato Sgarbi come fosse un parente tornato da un paese lontano. I due, da sei mesi, si sono ritrovati dopo lo schiaffo del 1991 a L’Istruttoria di Giuliano Ferrara, storia della televisione. E mai come questa volta D’Agostino e Sgarbi sono stati d’accordo sul valore dello schiaffo «come forma di comunicazione».
Per D’Agostino, Sgarbi è ultimamente
cambiato: «Oggi ha bisogno di sentire il calore della famiglia e degli amici». E anche questa volta gli amici non sono mancati al punto che il lunatico cantautore Morgan ha chiesto: «Ma come fai ad averne così tanti?», mentre tutti venivano rapiti dalla pornostar Vittoria Risi, altra fedelissima di Sgarbi che a Venezia fece denudare ed esibire accanto al quadro di una Vergine. Gli amici erano numerosi al punto che gli assenti hanno pensato di raddoppiare. A Venezia, a Palazzo Grifalconi Loredan, il presidente di Spoleto Arte, Salvo Nugnes, ha voluto idealmente continuare la festa di compleanno. Altri ancora hanno scelto di mettere fine ai malintesi e ai dissidi.
Barbara Alberti che è stata, finora, la prima biografa di Vittorio Sgarbi ( Il pro
messo sposo), dopo anni ha deciso di reincontrare Sgarbi e gli ha dedicato una poesia che Vittorio Sereni compose per Umberto Saba: «Sempre di sè parlava ma come lui nessuno/ ho conosciuto che di sè parlando/ ad altri vita altrettanto e più ne desse». E sarà stata per questa ragione se il critico d’arte e giornalista Luca Nannipieri ha deciso di scrivere su Sgarbi un libro estetico ed estatico ( Vittorio Sgarbi spiegato a mio
figlio, Aliberti editore), una sorta di ode «alla fame di Sgarbi», dato che per Nannipieri «gli atti d’amore nei confronti di Vittorio hanno qualcosa di paragonabile solo alle folle di Giovanni Paolo II e di Fidel Castro». A smontarlo ci ha pensato lo stesso Sgarbi. «Mi ha fatto chiamare dal suo avvocato» ha rivelato Nannipieri, «perché voleva condividere i diritti dell’opera».
Nannipieri ha anticipato che non solo destinerà i proventi alla fondazione SgarbiCavallini, ma è pronto pure a scrivere un altro libro su Sgarbi dal titolo Sgarbi spiegato
a Sgarbi. Eppure ci ha pensato già Sgarbi a spiegarsi. Di Sgarbi esiste già un film, Sgar
bistan, girato da Maria Elisabetta Marielli; un dizionario, Lo Sgarbino, 1.412 pagine, 40 mila parole; due termini sono entrati nel dizionario della Treccani, «sgarbiano» e «sgarbisti»; pure una bambola porta il suo nome ( Sgarbie); un partito politico è stato da lui fondato (Rinascimento), oltre a quelli che ha frequentato e lasciato.
Tutti d’accordo con Philippe Daverio quando ha declinato il suo Sgarbi e ha det-
to: «Diciamolo, Sgarbi è ormai un pezzo di museo». Ed è forse per questo che Sgarbi, per tutta la serata, non ha fatto altro che cercare conforto nella sorella Elisabetta a cui ha tenuto salda la mano. I due si sono guardati quando Morgan ha dedicato Ciao,
ciao, bambina alla madre Rina. Si sono capiti ma non si sono parlati. Ma c’è stato più Sgarbi in quei pochi attimi che in tutta la serata.
Poi Sgarbi è tornato Sgarbi. Monumentalizzato, trattato come un’opera d’arte, hanno iniziato ufficialmente a compilare la sua fenomenologia. Del resto, fu lo stesso Sgarbi ad ammettere di sè: «Sono un mito vivente». E subito dopo ad aggiungere: «Non è che mi ritenga Dio, ma, obiettivamente, l’unico spazio che mi resta da occupare è quello celeste».