Hamas dimostri di essere cambiata
Il movimento estremista palestinese ha presentato il nuovo statuto. Che contiene tre importanti novità: riconoscimento dei confini del 1967, presa di distanza dai Fratelli musulmani, distinzione fra sionisti ed ebrei. Solo tattica, come sospetta Israele?
Il governo di Netanyahu ha già gridato all’inganno, sostenendo che la nuova «Carta sostituzionale» di Hamas mira solo a intorbidire le acque, ma non cambia la sostanza dell’obiettivo finale del movimento islamista palestinese: la distruzione dello Stato ebraico.
Si tratta di una reazione prevedibile, da parte di uno degli esecutivi israeliani più scettici verso il dialogo con i palestinesi, da quando gli Accordi di Oslo sono stati firmati. E non c’è dubbio che margini di ambiguità esistono nel nuovo «Statuto», che per la prima volta rivendica come confini dello Stato palestinese quelli del 1967, senza però riconoscere lo Stato ebraico. E non è questa l’unica novità della Carta identitaria di Hamas, al governo della Striscia di Gaza da quando, nel 2006, vinse corrette elezioni politiche. Sparisce ogni riferimento alla Fratellanza musulmana, di cui Hamas è storicamente un’emanazione, così come viene esplicitata la differenza tra «sionisti occupanti» e semplici ebrei.
Ovvio che a Israele tutto ciò non basti: il riconoscimento del diritto a esistere è il minimo che uno Stato possa pretendere dai vicini. Oppure non sia utile: la distinzione tra sionismo e religione ebraica, storicamente ineccepibile, è politicamente indigesta per il governo di Tel Aviv (e i confini del 1967 è lo stato di Israele per primo a non riconoscerli più). Tutto ciò premesso, la questione è perché Hamas ha scelto di fare un simile passo e quanto sia opportuno o meno ignorarlo. In questa direzione possono essere senza dubbio fornite spiegazioni di natura tattica: la necessità per Hamas di uscire dall’isolamento internazionale e dalla lista dei gruppi terroristici, che lo rende troppo facilmente assimilabile allo Stato islamico, che invece per il movimento palestinese rappresenta un insidioso competitor. Alla stessa categoria si iscrive la presa di distanza dai Fratelli musulmani, arcinemici del presidente egiziano al Sisi, con cui volente o nolente la dirigenza di Hamas deve fare i conti.
Ma non è detto per nulla che passi sia pur motivati da ragioni tattiche non possano produrre cambiamenti strategici, se non vengono lasciati cadere nel nulla da parte della comunità internazionale. Comunità che ha tutto l’interesse a distinguere tra le tante organizzazioni armate del Medio Oriente e a favorire l’evoluzione politica di Hamas, piuttosto che lasciarla marcire e contagiarsi nel calderone del «terrorismo jihadista». In fondo, anche l’Olp all’origine praticava la strada della violenza. Ed è stato proprio l’incoraggiamento a intraprendere una strada diversa, con il riconoscimento degli sforzi attuati, ad averne cambiato profondamente la natura. «Le parole sono pietre» recita l’antico adagio: è vero ovunque e lo è ancora di più in Medio Oriente, dove nessuna dichiarazione lascia il tempo che trova. O ci siamo dimenticati l’eco disastroso delle parole di Benjamin Netanyahu, quando durante la campagna elettorale affermò che non avrebbe mai applicato gli Accordi di Oslo? Quelle di Hamas non sono ancora parole di pace, ma se non altro vanno nella giusta direzione. Sarebbe un delitto politico sottovalutarle.
CONFINI ‘67 SONO QUELLI PRECEDENTI LA GUERRA DEI SEI GIORNI