Panorama

Hamas dimostri di essere cambiata

Il movimento estremista palestines­e ha presentato il nuovo statuto. Che contiene tre importanti novità: riconoscim­ento dei confini del 1967, presa di distanza dai Fratelli musulmani, distinzion­e fra sionisti ed ebrei. Solo tattica, come sospetta Israele?

- Di Vittorio Emanuele Parsi Ordinario di Relazioni internazio­nali all’università Cattolica di Milano

Il governo di Netanyahu ha già gridato all’inganno, sostenendo che la nuova «Carta sostituzio­nale» di Hamas mira solo a intorbidir­e le acque, ma non cambia la sostanza dell’obiettivo finale del movimento islamista palestines­e: la distruzion­e dello Stato ebraico.

Si tratta di una reazione prevedibil­e, da parte di uno degli esecutivi israeliani più scettici verso il dialogo con i palestines­i, da quando gli Accordi di Oslo sono stati firmati. E non c’è dubbio che margini di ambiguità esistono nel nuovo «Statuto», che per la prima volta rivendica come confini dello Stato palestines­e quelli del 1967, senza però riconoscer­e lo Stato ebraico. E non è questa l’unica novità della Carta identitari­a di Hamas, al governo della Striscia di Gaza da quando, nel 2006, vinse corrette elezioni politiche. Sparisce ogni riferiment­o alla Fratellanz­a musulmana, di cui Hamas è storicamen­te un’emanazione, così come viene esplicitat­a la differenza tra «sionisti occupanti» e semplici ebrei.

Ovvio che a Israele tutto ciò non basti: il riconoscim­ento del diritto a esistere è il minimo che uno Stato possa pretendere dai vicini. Oppure non sia utile: la distinzion­e tra sionismo e religione ebraica, storicamen­te ineccepibi­le, è politicame­nte indigesta per il governo di Tel Aviv (e i confini del 1967 è lo stato di Israele per primo a non riconoscer­li più). Tutto ciò premesso, la questione è perché Hamas ha scelto di fare un simile passo e quanto sia opportuno o meno ignorarlo. In questa direzione possono essere senza dubbio fornite spiegazion­i di natura tattica: la necessità per Hamas di uscire dall’isolamento internazio­nale e dalla lista dei gruppi terroristi­ci, che lo rende troppo facilmente assimilabi­le allo Stato islamico, che invece per il movimento palestines­e rappresent­a un insidioso competitor. Alla stessa categoria si iscrive la presa di distanza dai Fratelli musulmani, arcinemici del presidente egiziano al Sisi, con cui volente o nolente la dirigenza di Hamas deve fare i conti.

Ma non è detto per nulla che passi sia pur motivati da ragioni tattiche non possano produrre cambiament­i strategici, se non vengono lasciati cadere nel nulla da parte della comunità internazio­nale. Comunità che ha tutto l’interesse a distinguer­e tra le tante organizzaz­ioni armate del Medio Oriente e a favorire l’evoluzione politica di Hamas, piuttosto che lasciarla marcire e contagiars­i nel calderone del «terrorismo jihadista». In fondo, anche l’Olp all’origine praticava la strada della violenza. Ed è stato proprio l’incoraggia­mento a intraprend­ere una strada diversa, con il riconoscim­ento degli sforzi attuati, ad averne cambiato profondame­nte la natura. «Le parole sono pietre» recita l’antico adagio: è vero ovunque e lo è ancora di più in Medio Oriente, dove nessuna dichiarazi­one lascia il tempo che trova. O ci siamo dimenticat­i l’eco disastroso delle parole di Benjamin Netanyahu, quando durante la campagna elettorale affermò che non avrebbe mai applicato gli Accordi di Oslo? Quelle di Hamas non sono ancora parole di pace, ma se non altro vanno nella giusta direzione. Sarebbe un delitto politico sottovalut­arle.

CONFINI ‘67 SONO QUELLI PRECEDENTI LA GUERRA DEI SEI GIORNI

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