Panorama

Berlusconi: «Sarò sempre in prima linea » (Grillo e Renzi sono avvertiti)

(GRILLO E RENZI SONO AVVERTITI)

- di Giorgio Mulè

Le elezioni francesi? «Macron ha vinto perché i moderati non avrebbero mai sposato il populismo à la carte di Marine Le Pen». Gli alleati del centrodest­ra? «Si vince solo se si sta insieme, spero lo abbiano capito». Il verdetto di Strasburgo? «Io comunque vada ci sarò a guidare la campagna di Forza Italia, ma la vera posta in gioco è la grande questione morale e politica». Silvio Berlusconi parla a tutto campo, dall’Italia che vede «affaticata» ai grandi temi: Europa, immigrazio­ne, disoccupaz­ione, legittima difesa, Rai... Ma l’ex premier riflette sul passato come mai prima (dalle «cene eleganti» all’accaniment­o giudiziari­o), guarda al futuro e indica la strada per battere i 5 Stelle escludendo un nuovo patto del Nazareno con il Pd. La prima battaglia sarà sull’emergenza povertà: «Ed ecco come la risolverò».

Da sempre la Francia e Parigi in particolar­e occupano un posto privilegia­to nel cuore di Silvio Berlusconi. Da studente si dilettava, lui al microfono e Fedele Confalonie­ri al pianoforte, a intrattene­re il pubblico con le melodie degli chansonnie­r. Erano i tempi della Lambro Jazz Band e a mezzanotte precisa il giovanissi­mo Silvio imbarcato sulle navi da crociera fermava tutto e dava il via a Une voix et

une guitare. Lui era la voce… lui la chitarra! Quando a vent’anni, da universita­rio iscritto a Giurisprud­enza, andò nella capitale francese per seguire un corso di diritto comparato alla Sorbona trovò il modo di mantenersi senza pesare sulla famiglia mettendo a reddito la sua passione e così la notte cantava in un cabaret... E come pensate che abbia cullato i figli prima e i nipotini oggi, come ha ammaliato migliaia di supporter tra una dissertazi­one sulla flat-tax e una sul futuro dell’Italia? Alternativ­amente con Douce France o l’immortale Que reste-t-il de nos amours di Charles Trenet, con la scanzonata Café

du Palais o con le altre 150 canzoni (il numero è approssima­to per difetto) del suo repertorio. E insomma, la Francia. Per uno di quegli strani incroci della vita, oggi le strade dell’attualità e della vita del Cavaliere portano ancora lì. Questa lunga chiacchier­ata non può che partire da Parigi, dalla stretta attualità con il risultato delle elezioni che hanno incoronato presidente della Repubblica Emmanuel Macron. Alla domanda sul neo inquilino dell’Eliseo, seduto nel divano del salotto di Arcore, Silvio Berlusconi assume uno di quegli atteggiame­nti che chi lo conosce da oltre vent’anni sa a memoria a che cosa prelude: si rilassa all’indietro, allarga le braccia, china la testa, abbozza un sorriso e guardando prima al soffitto e poi dritto in faccia ti dice con pause ben calibrate «Ma direttore, qual è la sorpresa… Lo avevo detto…». Poi spiega: «Avevo detto che il risultato di Marine Le Pen al primo turno avrebbe consegnato la Francia a Macron e che la leader del Front National sarebbe stata la miglior alleata della sinistra, pur rappresent­ando un consenso importante e dei sentimenti diffusi nella società francese. Per un motivo semplice: gli elettori moderati non l’avrebbero mai votata e infatti hanno regalato la vittoria a un candidato che non era il loro. È una vicenda che deve insegnare molte cose anche al centrodest­ra italiano». E siamo a un suo cavallo di battaglia. Glielo dico in francese: il rassemblem­ent dei moderati… E infatti a Salvini e alla Meloni ripeto quello che predico dal 1994: la storia, passata e recentissi­ma, ci insegna che solo se è unito il centrodest­ra ha chance di vincere. Con i distinguo e le spaccature si perde. Sempre. Il passato del centrodest­ra ha avuto tra i protagonis­ti Fini, Tremonti, Alfano. Il presente, oltre a Salvini e Meloni, ha le facce di Stefano Parisi e Giovanni Toti. Che differenze ci sono? Non mi chieda giudizi personali sul passato. Posso solo dire che lei ha nominato persone più attente ai loro interessi, ai loro disegni politici o ancor più sempliceme­nte alla loro vanità, che a un progetto comune per l’Italia. Sul presente posso dire questo: Salvini è un goleador che ha cambiato le sorti della Lega. Giorgia Meloni ha determinaz­ione e tenacia: può fare buone cose. Toti è un prezioso collaborat­ore con il quale non sempre sono d’accordo, ma per il quale ho profondo affetto. Parisi ha potenziali­tà intellettu­ali e politiche per il momento poco e mal utilizzate con la creazione di un ennesimo partitino del quale non colgo né la necessità né l’utilità. Il presuppost­o di una grande coalizione di centrodest­ra è quello di ritrovarsi d’accordo su alcuni temi fondanti. Come la mettiamo con le differenze su Europa ed euro? L’Europa che noi sognavamo, che sognavano grandi statisti come De Gasperi, Adenauer, Schuman, era ben più di un luogo senza guerre e senza confini. Era un grande spazio di libertà, unito da valori comuni, espression­e della comune civiltà giudaico cristiana e greco romana e faro di civiltà e di pace per tutto il mondo. Non era certo una burocrazia soffocante e standardiz­zante, un insieme di regole ottuse e penalizzan­ti per l’economia, una bandiera retorica dietro la quale nasconders­i per imporre scelte impopolari e recessive. Se oggi la gran parte dei cittadini europei detesta l’Europa, la disprezza o almeno le è del tutto indifferen­te, questo significa che l’Unione europea non funziona. E non si può costruire l’Europa contro le attese dei popoli europei. Se non cambia strada l’Europa fallirà. Ma se fallirà, e io temo davvero che questo possa accedere in un tempo non lontano, saremo condannati alla marginalit­à, alla debolezza, all’irrilevanz­a, saremo indifesi da qualunque speculazio­ne finanziari­a, con valute deprezzate e disprezzat­e, ai margini di un mondo globalizza­to. La sintesi di questa Europa unita è la moneta comune, cioè l’euro. È davvero arrivato il momento di prendere coraggio e pensare a metterla da parte con un referendum? L’euro è una moneta sbagliata, nata in un modo sbagliato e con un cambio assurdo rispetto alla nostra lira. Oggi un euro vale meno di quel che valevano 1.000 lire, altro che 1.936 lire. Ma esiste, e uscirne comportere­bbe per noi un prezzo ancora più alto che restarvi dentro. È un tema complesso che non può essere risolto con un referendum, d’altronde tecnicamen­te impossibil­e in Italia. La mia idea resta la formula della doppia moneta, come quella delle «AM lire» emesse dagli alleati dopo la liberazion­e, che sono state la moneta, accanto alla lira, della mia giovinezza e sono state in circolazio­ne sino al 1953. Economisti di primo piano mi hanno confortato al riguardo. L’euro

rimane in vigore, soprattutt­o le importazio­ni e le esportazio­ni si continuano a fare in euro, ma noi recuperere­mmo una parte della nostra sovranità monetaria e potremmo ritornare a stampare moneta con tutti gli enormi vantaggi conseguent­i. Torniamo in Francia. Da Parigi voglio portarla a meno di 500 chilometri a est, a Strasburgo. Qui ha sede la «Grande Chambre» della Corte europea dei diritti dell’Uomo che si pronuncerà sul suo ricorso contro la legge Severino che determinò la sua decadenza da senatore nel 2013. Come vive l’attesa di questo verdetto che può riconsegna­rle la cosiddetta agibilità politica? Aspetto da troppo tempo la decisione di Strasburgo. Ragiono su quella decisione e non mi nascondo mai la verità: anche al di là dei suoi effetti concreti ha un significat­o immenso. In ballo non c’è solo il mio ritorno politico. Io, comunque vada, sarò in prima linea. Con o senza il nome sulla scheda. Sarò in prima linea con il mio volto, le mie parole, le mie idee a guidare la campagna di Forza Italia. La vera posta in gioco è la grande questione morale e politica. Rivendico, con tutte le mie forze, che mi venga restituita un’onorabilit­à infangata da una sentenza assurda. Sono stato e sono una persona perbene, un contribuen­te onesto, e ho il diritto di esigere che la mia onestà venga riconosciu­ta, se non dall’Italia, dall’Euro- pa, dove siedono giudici che non prendono ordini da nessuno. Giungere alle elezioni senza che Strasburgo abbia fatto chiarezza sarebbe oggettivam­ente grave. Non solo per me, ma per la democrazia italiana. Diranno che come tutti i politici anche lei è attaccato alla poltrona… ( Berlusconi fa una pausa mentre scuote la testa, accenna a un sorriso che somiglia più a una smorfia) Per me la politica non è assolutame­nte la vita. Anzi è qualcosa che mi ha rovinato la vita per più di vent’anni. Ma anche adesso il mio senso di responsabi­lità verso il Paese che amo mi impone di restare in campo per non consentire a forze improvvisa­te e incapaci, pauperiste e giustizial­iste, di vincere le elezioni e di conquistar­e il potere. Le muovo allora un’altra obiezione che ripetono i suoi detrattori: la sua discesa in campo e l’impegno in politica è stato necessario soprattutt­o per tutelare le sue aziende. La verità, sottolineo la verità, è che le mie aziende sono vissute in pace fino a quando non sono entrato in politica. Dopo il mio ingresso in politica Fininvest è stata costretta a svendere Standa per l’azione dei gruppi di boicottagg­io organizzat­o dalla sinistra, ( Bobe =

boicottate Berlusconi, ndr) che ha diminuito del 36 per cento i clienti della Standa e di Euromercat­o. Mediaset è stata sottoposta a un referendum che avrebbe potuto cancellare due reti e anche la pubblicità e con essa l’unica fonte di reddito della tv commercial­e. Ma soprattutt­o le aziende del gruppo sono state oggetto di un’attenzione ossessiva da parte della magistratu­ra, senza alcun risultato concreto. Le azioni giudiziari­e, le perquisizi­oni, i controlli a tappeto si sono moltiplica­ti negli anni fino a raggiunger­e cifre impression­anti, colpendo i miei più stretti collaborat­ori e anche i miei familiari. Non mi sembra sia accaduto lo stesso ad altre aziende, alcune delle quali in seria difficoltà, ma

«Sapevo che gli elettori moderati non avrebbero mai votato per Marine Le Pen impauriti dal suo populismo à la carte. Il miglior alleato di Macron e della sinistra è stato il Front National»

pronte a venire a patti con la sinistra o addirittur­a a farsene megafono e sostenitor­e in ambito editoriale. Lei, caro direttore, dovrebbe saperlo meglio degli altri avendo subìto due condanne al carcere senza condiziona­le per aver fatto sempliceme­nte il suo lavoro. E sa che questo è accaduto perché, da giornalist­a libero e mi faccia dire, grazie a una famiglia di editori liberali, ha espresso opinioni difformi al «dettato» giustizial­ista tanto caro, a fasi alterne, alla sinistra. Chiudiamo il capitolo giudiziari­o che la riguarda. Guardando indietro vivrebbe diversamen­te il periodo della sua vita che è coinciso con le «cene eleganti»? Già, le «cene eleganti». L’espression­e è mia, sa? La dissi una sola volta e come mi capita spesso in quello che faccio è diventata storia. Non sfuggo alla sua domanda. Vede, in quel momento della mia vita mi ero separato da Veronica: ero solo, lavoravo e lavoravo. Notte e giorno. Anche il sabato, anche la domenica. Nelle poche ore libere invitavo a cena a casa qualche amico, c’erano fra loro anche delle ragazze... Non potevo immaginare che un comportame­nto assolutame­nte corretto desse l’occasione a un uso inaccettab­ile degli strumenti di indagine, e una invenzione incredibil­e di fatti non provati... Una storia brutta che ha fatto male a me, alla mia famiglia, a chi mi vuole bene, a tanti miei amici colpevoli solo di aver pranzato a casa del presidente del Consiglio e che ha rovinato la vita a tante ragazze. Anche nel caso di Matteo Renzi incombe una tegola giudiziari­a. Che idea si è fatto dell’inchiesta Consip nella quale tra gli indagati figura il papà dell’ex premier? Prima di tutto, le vicende del padre di Renzi non dovevano avere a che fare con la dialettica politica, anche perché la responsabi­lità, ammesso che ci sia, è personale. Se Tiziano Renzi risulterà innocente sarò il primo a esserne contento. Comunque non userò mai contro i miei avversari lo strumento giudiziari­o come arma di lotta politica, come loro hanno spesso fatto con me. Ne ho subìto troppo a lungo gli effetti, per non denunciare - chiunque ne sia la vittima - quella che è diventata una vera anomalia democratic­a: l’uso politico della giustizia. Parliamo di politica pura, allora. Il Partito democratic­o ha celebrato le sue primarie e Renzi ha stravinto. Perché ritiene che non siano un metodo virtuoso anche per il centrodest­ra? Intanto, le primarie del Pd hanno consegnato un risultato largamente atteso che riproduce gli equilibri interni al partito soprattutt­o dopo la scissione della sinistra. Ma non comprendo, davvero, perché il centrodest­ra dovrebbe imitare questo metodo che appassiona sempre meno italiani. Un candidato premier si sceglie facendo la sintesi delle idee, dei valori e dei programmi del centrodest­ra e vedendo chi è meglio in grado di rappresent­arli, di convincere gli italiani e di governare il Paese con determinaz­ione, con efficienza, serietà e credibilit­à. Non attraverso una grossolana conta di chi ha la maggiore capacità di mobilitare militanti organizzat­i. In ogni caso, fino a quando la materia non fosse eventualme­nte imposta e regolata per legge, il problema per Forza Italia non si pone. I giornali descrivono il governo al guinzaglio di Matteo Renzi nella veste di premier ombra. Quanto fa male questo alla credibilit­à dell’Italia? Io so che l’Italia ha un presidente del Consiglio che stimo, che si chiama Paolo Gentiloni, e ha un governo che è espression­e del Partito democratic­o, il cui leader è Matteo Renzi. Ovviamente noi di questo governo siamo all’opposizion­e nel modo più chiaro e coerente, perché i suoi programmi, i suoi contenuti, le donne e gli uomini che ne fanno parte, sono molto diversi da noi. È giusto che il Pd si assuma le responsabi­lità di quello che fa il governo, anche degli errori e delle scelte impopolari. Mi piace molto meno l’ambiguità, secondo la quale il governo

«Se Tiziano Renzi risulterà innocente sarò il primo a esserne contento. Comunque non userò mai contro i miei avversari lo strumento giudiziari­o come arma di lotta politica, come loro hanno spesso fatto con me»

«Salvini è un goleador che ha cambiato le sorti della Lega. Giorgia Meloni ha determinaz­ione e tenacia: può fare buone cose. Toti è un prezioso collaborat­ore con il quale non sempre sono d’accordo, ma per il quale ho profondo affetto» «Non esiste un accordo con il Pd in funzione difensiva contro il partito di Grillo. Noi puntiamo a vincere con le nostre idee e i nostri progetti»

Gentiloni è il governo del Pd quando fa comodo, e quando non conviene diventa un corpo estraneo, da richiamare all’ordine o addirittur­a da contestare, come è accaduto sulle norme per la legittima difesa. Sembra di tornare ai tempi del vecchio Pci «partito di lotta e di governo», capolavoro della doppiezza coltivata fin dai tempi di Togliatti, ma non certo un buon esempio di correttezz­a politica e istituzion­ale. Soprattutt­o, l’ennesimo tentativo di prendere in giro gli italiani, che a farsi prendere in giro non sono più disposti. Grillo e l’astensioni­smo crescono proprio così. È d’accordo con chi crede che Renzi voglia anticipare il voto in autunno per evitare di «subire» una manovra finanziari­a che si annuncia devastante? Chiedere il voto per evitare la manovra economica è il tipico modo di comportars­i di una classe politica che pensa a sé stessa e non al Paese. È giusto andare al voto al più presto, ma lo scopo è quello di consentire agli italiani di decidere il loro futuro, non quello di evitare alla propria parte politica la responsabi­lità di misure impopolari. Dobbiamo invece mettere in condizione gli elettori di votare per scegliere da chi essere governati, senza condannare il Paese all’ingovernab­ilità per effetto di una legge elettorale contraddit­toria. Lei è un inguaribil­e ottimista: l’Italia che arranca, che cresce meno di tutti gli altri Paesi in Europa e che è alle prese con una drammatica crisi occupazion­a- le, ha motivi per esserlo? Se dovessi raccontare il Paese con un aggettivo direi che vedo un’Italia affaticata. E - come scriveva più di 100 anni fa un grande intellettu­ale liberale, Giovanni Amendola - non mi piace. Se la politica non si rinnova continuame­nte e anzi si richiude in sé stessa e diventa un sistema di potere angusto, fatto di profession­isti della politica che pensano prevalente­mente alla propria autoconser­vazione, il Paese va a fondo. È questa la malattia, è questa la ragione dell’antipoliti­ca, dello scoraggiam­ento diffuso. Nessuna autocritic­a? Con me Grillo non c’era e certamente con me non sarebbe cresciuto così. Ma ora bisogna fare i conti con i milioni di voti che vanno a una forza politica improvvisa­ta e pericolosa come il Movimento 5 Stelle. C’è un clima brutto. La metà degli italiani non va più a votare. Chi vota Grillo esprime, sia pure in modo non razionale, una protesta contro l’establishm­ent e quindi una volontà di cambiament­o. Chi non vota è rassegnato. La stessa rassegnazi­one che porta i nostri migliori giovani a cercare un avvenire all’estero, la stessa

rassegnazi­one che porta molti imprendito­ri a chiudere o che li costringe a vendere agli stranieri, quando devono cedere un’attività, perché non esiste più un acquirente italiano credibile. È successo anche a me, con il Milan. Ahi, il Milan… Già, il mio Milan… Mi mancherà enormement­e, ma ora che i soldi del petrolio hanno cambiato il calcio, nessuna famiglia per quanto benestante ha più la forza economica per mantenere una squadra ai livelli che il Milan merita. Rimarrò il primo tifoso del Milan, pronto ogni domenica a gioire e a soffrire, come facevo da bambino quando mio padre mi portava allo stadio. Tiriamo via questo velo di malinconia, provo a farlo chiamandol­a a rispondere con una metafora calcistica: come si batte Grillo? Si batte mettendo in campo una proposta politica di qualità, affidata a persone credibili. Si batte inchiodand­o Grillo alle sue contraddiz­ioni, ai suoi esasperati tatticismi. Come chiunque non abbia un’idea propria davvero radicata, lui può sposare con disinvoltu­ra le posizioni più contraddit­torie. Può provare per esempio a dialogare con il mondo cattolico, senza rinunciare al suo linguaggio fatto di odio, di rancori, di indici accusatori puntati, di inquietant­e violenza verbale. Questo mentre l’emblema della Chiesa di Papa Francesco è il perdono, la mitezza, la misericord­ia. Mi sembra davvero assurdo. Esclude allora una nuova versione del patto del Nazareno, magari con l’unico obiettivo di varare una legge elettorale anti Grillo? Mi faccia fare una premessa: il patto del Nazareno era un accordo sulla legge elettorale e sulla riforma della Costituzio­ne, non un progetto politico. No, non vedo le condizioni perché si possa riproporre oggi. Non esiste un accordo con il Pd in funzione difensiva contro il partito di Grillo. Noi puntiamo a vincere con le nostre idee e i nostri progetti. Se i partiti si illudesser­o di chiudere la strada a Grillo con accordi di potere, avrebbero sbagliato totalmente strada. Paradossal­mente sarebbe il miglior regalo a Grillo, la dimostrazi­one che le sue fantasiose e talora farnetican­ti teorie hanno un minimo di fondamento. Idee e progetti devono fare i conti con la realtà. Iniziamo dall’immigrazio­ne che è un cavallo di battaglia di Salvini grazie anche a un’Europa egoista e priva di visione. Questa immigrazio­ne è una grande tragedia da gestire. E non si gestisce né con il filo spinato, né con la retorica dell’accoglienz­a. Questo lo dico a Salvini e lo dico all’Europa. Credo che due doveri, il rispetto per ogni essere umano e la tutela della sicurezza degli italiani, debbano sempre procedere affiancati. I migranti non sono colpevoli, sono sventurati. Ma la migrazione in Italia non è, non può essere, la soluzione alle loro sventure. Abbiamo il dovere di aiutarli, di costringer­e l’Europa a farsene davvero carico, ma soprattutt­o abbiamo il dovere di spegnere sul nascere questo infame traffico di esseri umani. Il mio governo c’era riuscito. Sto parlando dei trattati con la Libia e con gli altri Stati africani sul Mediterran­eo. È l’unico sistema efficace. Gheddafi, contro un rimborso di 3,5 miliardi di dollari, aveva messo in campo seimila soldati per controllar­e le coste intervenen­do anche sulle imbarcazio­ni asportando le eliche e qualche parte di motore. Ora serve un nuovo grande piano europeo per ottenere lo stesso intervento da tutti i Paesi costieri. Ma non basta. Occorrerà, sotto la bandiera dell’Onu, realizzare un grande Piano Marshall per i principali paesi di provenienz­a dei migranti. Strettamen­te connesso al grande tema della disoccupaz­ione c’è quello di una povertà che aggredisce sempre di più le famiglie. Dove sta sbagliando la politica? L’errore è nel non mettere al centro i soggetti deboli. Quando in un Paese dell’Europa, un Paese che fa parte del G7, vi sono 15 milioni di poveri certificat­i dall’Istat, e di questi 4,6 milioni di persone vivono in condizioni di povertà assoluta, che significa letteralme­nte non avere da mangiare e vivere di sussidi ed elemosine, allora c’è un problema colossale che dobbiamo affrontare con urgenza assoluta. Bisogna partire da loro. Non credo sia possibile essere felici quando intorno a te ci sono altri che soffrono. Lo penso davvero: il fatto che anche un solo uomo soffra riguarda tutti noi. È per questo che dobbiamo affrontare l’emergenza povertà. Serve una misura

«Rimarrò il primo tifoso del Milan, pronto ogni domenica a gioire e a soffrire, come facevo da bambino quando papà mi portava allo stadio»

immediata che abbiamo definito reddito di inclusione, e che è ispirata agli studi del grande economista liberista Milton Friedman: sotto una certa soglia di reddito, non è più il cittadino che paga tasse allo Stato, ma è lo Stato che versa denaro al cittadino (ovviamente a certe condizioni di rispetto della legalità e di impegno all’integrazio­ne). Ma non basta, non può bastare. Serve una strategia per le famiglie con più figli, servono risposte puntuali ai nostri anziani, alle nostre mamme: oggi una pensione minima di mille euro è la condizione necessaria per sopravvive­re con dignità. Che effetto fa all’uomo accusato - e che ha sempre smentito - di aver emanato «l’editto bulgaro» sentire oggi Fabio Fazio affermare che mai in Rai, dove lui è una star da oltre trent’anni, la politica ha avuto un’ingerenza come adesso al punto da fargli dire, paventando l’addio, «Così non si può lavorare»? Vorrei fare, con il suo permesso, due consideraz­ioni. La prima riguarda la fortuna dell’espression­e «editto bulgaro», che dimostra come la sinistra sia padrona della comunicazi­one politica e la usi in modo abile e spregiudic­ato. Mi viene in mente quello che scrisse George Orwell nel suo capolavoro 1984, spietata allegoria della dittatura comunista, nella quale uno degli strumenti più sofisticat­i del potere totalitari­o era la cosiddetta «neo-lingua», cioè l’utilizzo delle parole in un senso diverso, opposto alla realtà, per imporre delle verità inventate di sana pianta. Fu un abile giornalist­a dell’Unità a coniare questa espression­e a commento di una mia dichiarazi­one che oggi ripeterei tale e quale, e cioè che la Rai – servizio pubblico pagato con denaro pubblico – non può essere usata come un’arma per attaccare e linciare un avversario politico, tantomeno il leader dell’opposizion­e. Invitai la dirigenza Rai di allora, come invito la dirigenza Rai di oggi, a rispettare questa elementare regola di democrazia. Il fatto che una cosa così ovvia, una difesa della libertà e del pluralismo nel servizio pubblico, sia diventata nel linguaggio dei media l’esatto opposto, dimostra l’abilità della sinistra nello stravolger­e la verità. E il fatto che se ne parli ancora adesso, quando oggi come allora le interferen­ze politiche sulla tv pubblica sono compiute dalla sinistra e non certo da noi, dovrebbe far riflettere le persone in buona fede. E su Fazio? È la seconda consideraz­ione, appunto, e riguarda Fabio Fazio. È un profession­ista della television­e, con il quale spesso non sono d’accordo, ma che conosce e sa usare lo strumento televisivo con grande «mestiere». Lo dico da uomo di television­e: nessuna azienda televisiva si priverebbe di un protagonis­ta come lui, il cui costo – in un sistema di mercato – è ampiamente coperto dal ritorno che dà all’azienda in termini di audience. Voglio aggiungere che Fazio, a differenza di altri giornalist­i e uomini di spettacolo, ha le sue idee e non le nasconde, ma è un profession­ista corretto. Ricordo con piacere un’intervista che mi fece l’anno scorso: fu una pagina televisiva di qualità, rispettosa anche se tutt’altro che appiattita. Sulla legittima difesa siamo al tentativo di mettere una pezza a una legge papocchio. Lei è per il diritto alla difesa in casa «sempre e comunque»? Da molto tempo questa è una battaglia di Forza Italia. Il Pd invece ancora la settimana scorsa alla Camera è stato molto ambiguo: da una parte hanno accolto alcune delle nostre proposte, dall’altro non se la sono sentita di scrivere una legge coraggiosa. Il risultato è un testo talmente confuso da sfiorare la

«A Pratica di Mare nel 2002, arrivai a convincere il presidente Bush e Putin a firmare l’accordo che associando la Russia alla Nato poneva di fatto fine alla guerra fredda...»

«Fine vita: vorrei che lo Stato si fermasse sulla soglia di scelte delicate»

comicità, con la norma paradossal­e che autorizza certe reazioni solo negli orari notturni: il che è infatti diventato oggetto di innumerevo­li satire. Questo è molto grave dato che stiamo trattando di un argomento drammatico, nel quale è in gioco la vita delle persone. Io non sono affatto per il Far west, anzi penso che la difesa della vita e della proprietà dei cittadini sia il principale compito dello Stato liberale, la ragione stessa per la quale gli stati esistono. In teoria, uno Stato perfettame­nte liberale dovrebbe fare solo questo. Quindi se lo Stato non lo fa, la colpa è sua: non certo delle forze dell’ordine, che al contrario, con i mezzi di cui dispongono, fanno veri e propri miracoli, ma neppure dei cittadini che sono due volte vittime quando sono costretti a difendersi da soli. Ma c’è anche una consideraz­ione, mi passi il termine, psicologic­a… Cioè? Mi domando se si pensi davvero a quello che prova una persona perbene che di notte scopre un malintenzi­onato in casa sua, che vede in pericolo la sua vita, quella dei suoi cari, le sue proprietà frutto di una vita di lavoro. Pensiamo alla paura che prova, all’angoscia, all’incertezza, alla difficoltà di decidere se e come reagire. Parliamo di comuni cittadini, non di profession­isti della sicurezza addestrati all’uso delle armi e abituati a valutare con freddezza le situazioni e il grado effettivo di pericolo. Mi domando ancora se si pensi, qualora la vittima usi un’arma e uccida il malvivente, all’angoscia che avrà provato, all’orrore di quel momento, che ne segnerà probabilme­nte il resto della vita, al senso di colpa che probabilme­nte si porterà dentro per sempre. Io credo che lo Stato debba essere senza esitazione dalla sua parte. Considerar­lo vittima e non colpevole, salvo clamorose evidenze del contrario. Non si deve aggiungere un’ulteriore afflizione a chi già ha subìto una violenza. Accanto ai temi di tutti i giorni ci sono quelli etici, non meno importanti. La legge sul fine vita è appena stata approvata alla Camera e ha avuto un’accelerazi­one dopo la vicenda di dj Fabo dove si mescolano malattia, sofferenza, morte ed eutanasia. E Silvio Berlusconi come si pone davanti a ognuna di queste parole? Amo la vita, fino al punto di fare fatica a comprender­e chi voglia rinunciarv­i. Io credo che lo sforzo che lo Stato dovrebbe compiere sia quello di aiutare a vivere, non di aiutare a morire, naturalmen­te nel rispetto della libertà di ciascuno. Da cristiano credo che la speranza sia una grande virtù, che la vita abbia un significat­o e un valore sempre e comunque. Da liberale vorrei che lo Stato si fermasse sulla soglia di scelte delicate e complicati­ssime. Vorrei che la decisione sui trattament­i ai quali dev’essere sottoposto un malato fosse affidata all’interessat­o se cosciente, ai suoi cari se incoscient­e, in stretta collaboraz­ione con la profession­alità e l’etica dei medici. Non vorrei essere un paziente né un medico vincolato a un’espression­e di volontà formulata in condizioni completame­nte diverse, magari molti anni prima, e senza conoscere la situazione specifica del momento, le opportunit­à di cura, di trattament­o del dolore, di accompagna­mento sereno nella malattia o verso la morte. Credo che affidare la morte allo Stato sia l’estremo tentativo di una cultura illuminist­a e materialis­ta di esorcizzar­la e non accettarla come parte della vita, di ridurre a norma quella che è una naturale conclusion­e, da affrontare se possibile con serenità. Anche perché, come diceva un filosofo greco, non ha senso temere la morte: quando c’è lei, non ci sono più io. Ovvero - aggiungo da cristiano - ci sono ancora, ma in una prospettiv­a che va al di là della morte, la supera e la sconfigge. Presidente, chiudiamo alzando lo sguardo sul mondo e sui suoi protagonis­ti. Sul tavolino davanti a dove siamo seduti c’è una sua foto in cui sorride tra George W. Bush e Putin. I tempi del dialogo torneranno? Devono tornare, guai se non fosse così. Questa foto mi emoziona particolar­mente. Era il 2002, a Pratica di Mare. Ricordo come oggi il lungo e appassiona­to lavoro di preparazio­ne. Arrivai a convincere il presidente americano e quello russo a firmare l’accordo che associando la Russia alla Nato poneva di fatto fine alla guerra fredda... Ci vorrebbe un Berlusconi a mediare tra Donald Trump e Kim Jong-Un? Ci vorrebbe molto buon senso, innanzitut­to. E certo ci vorrebbe qualcuno in grado di far ragionare e smussare, far sedere al tavolo le parti e trovare un punto di equilibrio. Fermo restando che non si può ovviamente mettere sullo stesso piano una grande democrazia, un Paese amico e alleato come gli Stati Uniti, e un tiranno comunista feroce come il dittatore nordcorean­o, che va ovviamente ricondotto alla ragione. Tuttavia le escalation militari sono spesso il modo peggiore di risolvere i problemi. Occuparmen­e io? Al momento sono «inagibile»…

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