SAPIENTEMENTE BUONO
Sano e buono. Due aggettivi da sempre incompatibili, forse per la prima volta coincidono. Mai l’alta cucina si era trovata davanti a una sfida così estrema. Per anni gli chef si sono addirittura guardati dall’inserire nei loro menu termini come leggero, biologico, naturale, per timore che quella sfumatura salutistica rovinasse l’appetito ai clienti. Praticavano, sì, ma in segreto.
Poi la gastronomia ha cambiato secolo, in due ondate successive. Quando è arrivata la prima, quella del «buono perché pulito» di Slow Food, loro, gli chef, erano già avanti e hanno potuto finalmente sfoderare i nomi degli allevatori prediletti, dei fornitori esclusivi, dei contadini amici, dell’orto e del frutteto. Ma quando è sopraggiunta la seconda, quella del «buono perché sano», gli stessi chef non sono stati al gioco.
Loro sanno che una foglia di spinacio scotta, benché sana, è triste, deprimente, perfino controproducente. Ed ecco che nelle spa cuochi eccellenti studiano portate
appetitose, pena vedere i clienti fiondarsi al più vicino ristorante a fine cura. Anche gli ospedali si sono adeguati, primo tra tutti il Cristo Re di Roma, per i cui pazienti Niko Romito ha elaborato un menu che dà l’addio alla pastina in brodo e stimola la voglia di guarire. Mentre il cuoco Stefano Polato si è sottratto alla quotidianità del lavoro al ristorante per creare, allo Space Food Lab, le lasagne che hanno tenuto alto l’umore di Samantha Cristoforetti nello spazio.
Ma sono ancora giochi da ragazzi se paragonati all’esigenza di soddisfare l’epicureo della tavola che non accetta privazioni se non per cercare il piacere. La sfida allora è stata quella di smontare uno a uno i pilastri della Nouvelle cuisine degli anni 70 e della cucina d’autore degli anni 90.
Prendiamo il pane. Anzi, non prendiamolo. Il cestino di lusso rovina-appetito e rovina-linea carico di michette, taralli, grissini, sfoglie, focacce, sta scomparendo. Da Teverini, a Bagno di Romagna, sotto una campana di vetro compare in tavola una pagnotta in lievitazione, che viene portata via e ripresentata dopo mezz’ora appena sfornata. Al D’O di Oldani il pane arriva insieme alla seconda portata. Alla Pergola di Roma accompagna di volta in volta i piatti in formato miniatura.
Anche pasta e riso cambiano collocazione. Nei menu degustazione passano da apertura a chiusura, prima del dolce, scongiurando l’effetto-sazietà dei carboidrati all’inizio del pasto. Lo fa Giuseppe Iannotti al Kresios di Telese Terme «magari in portate da 40 grammi anziché 70, tanto l’appetito è già soddisfatto». Lo fa, di nuovo, Davide Oldani calibrando la triade virtuosa carboidrati, vegetali e proteine, in proporzioni che rispettano la piramide della dieta mediterranea in ogni piatto.
L’universo verde, da sempre sinonimo di
salute, non si accontenta più della teglia di verdure dell’orto condite con un filo d’olio di oliva, benché perfetta. Serve un «qualcosa», un ingrediente, un passaggio tecnico per ottenere un gusto unico. Che per Enrico Crippa è la lattofermentazione, una sosta di poche ore dei vegetali sotto sale, zucchero e gocce di limone per eliminare l’acqua e concentrare i sapori: «Così arrivo a servire un menu di dodici portate senza che i clienti avvertano il minimo accenno di noia o di pesantezza», dice soddisfatto.
Il pesce è principe. Basti dire che Alain Ducasse al Plaza Athenée ha osato la scelta estrema: potenza di sapori ed equilibrio delle composizioni ispirato alla cucina kaiseki, abolendo carne e formaggi. L’indicibile fragranza del pescato è ottenuta con la tecnica giapponese ike jime che lo paralizza con un lungo ago e lo svuota del sangue. La spiegazione provoca qualche svenimento tra le signore.
Cambia anche la preparazione del fritto, che ha tutt’altra leggerezza se eseguito «all’inverso», cioè versando l’olio bollente sull’ingrediente anziché immergerlo, come fa Giancarlo Perbellini a Verona con la «triglia scottata sulle proprie squame, foie gras, mele e rape rosse», croccante e con un conto calorico da spa.
Ma la partita più difficile è quella delle salse, besciamelle, roux, fondi, decaduto fiore all’occhiello della Grande Cuisine, perché pesanti, grasse e indigeribili. Prese in mano da Yannick Alléno, lo chef visionario del Pavillon Ledoyen di Parigi e del 1947 di Courchevel, sono rinate con le «Estrazioni criofermentate», una concentrazione dei liquidi e dei sapori ottenuta col freddo anziché con l’evaporazione sul fuoco. Il risultato sono gusti inediti che conservano intatta la personalità della terra da cui provengono, come il vino. Le presentazioni, spoglie, provocano emozioni tribali: carré di vitello frollati nelle barrique di Château d’Yquem, zuppe di ciottoli, con un sasso spalmato di lardo e polvere di verdure che l’ospite è invitato a leccare.
Non è un caso che i giovani, clienti di oggi e di domani, apprezzino e sostengano questo modo «nuovo» di interpretare la cucina praticato da chi, come loro, non ha ancora trent’anni e per cui le frontiere sono solo timbri sul passaporto.
Per Christian Mandura, 27 anni, al Geranio di Chieri, Torino, la cucina è non-cotture, «tutto quello che si può mangiare crudo va tenuto crudo», pochi carboidrati, «invece dei tortelli di zucca, faccio medaglioni di zucca con fonduta e prezzemolo», e molto ritmo: 15 assaggi in due ore a 38 euro. Per Lorenzo Vecchia, 25 anni, del Volm, a Pozzuolo Martesana, Milano, cucina è un menu fluido, che parte da un elemento vegetale, senza portate strutturate. Magnificamente sane e sapientemente buone.