Panorama

«Preferisco ancora comprare una pagina

- di Lucia Scajola

di pubblicità su un quotidiano, piuttosto che far fare otto post a questa qui con addosso i miei prodotti: rischio pure che stia antipatica a qualcuno e mi rovino il brand. Sei d’accordo?» La spinta a immergerci nello scintillan­te mondo degli influencer nasce proprio dalla domanda di questo giovane imprendito­re.

Non avevamo elementi per dare una risposta, dunque ci siamo documentat­i, anche perché abbiamo capito di non essere i soli ad avere le idee poco chiare sul marketing influencer che, solo nel 2016, ha fatto circolare per il mondo 570 milioni di dollari. E il trend è in continua crescita. Di cosa stiamo parlando? Del fenomeno per cui persone, più o meno famose, non necessaria­mente autorevoli, ma con un forte seguito digitale - al secolo gli influencer -, reclamizza­no su piattaform­e online, prevalente­mente Youtube e Instagram, prodotti commercial­i: certe volte gratis, altre in cambio di regali, denaro o differenti forme di pagamento, tra cui persino buoni acquisto spendibili su Amazon e deducibili dalle tasse. I loro seguaci, di solito, sono molto giovani, la loro portabandi­era italiana (conosciuta, lei sì, probabilme­nte anche tra gli over 40), l’antesignan­a Chiara Ferragni: un profilo da 9,7 milioni di follower (seguaci) che, secondo i beninforma­ti, le vale un tariffario da 20 mila euro a post, ovvero ogni fotografia sponsorizz­ata pubblicata sulla sua pagina Instagram.

E qui si arriva a una novità di queste settimane: «La Federal trade commission,

negli Stati Uniti, ha dichiarato che se si ricevono compensi per reclamizza­re prodotti è necessario dichiararl­o esplicitam­ente nel post, altrimenti è pubblicità occulta» spiega l’avvocato Gianluca De Cristofaro, esperto in diritto della pubblicità. «Nel Regno Unito si sono già adeguati, in Italia, sembra che ci si stia muovendo nella stessa direzione, anche sotto la spinta dell’Istituto di autodiscip­lina pubblicita­ria e dell’Unione consumator­i». Lo conferma Carlo Noseda, ceo e fon

datore dell’agenzia creativa M&C Saatchi, oltre che presidente di Iab, la principale associazio­ne di categoria delle aziende di comunicazi­one e pubblicità in America ed Europa: «Col cappello del pubblicita­rio, dico che questo fenomeno rappresent­a un media nuovo: una gigante opportunit­à per parlare con le persone in un modo ancora diverso. Con quello da presidente di Iab, aggiungo che tutti devono pagare le tasse e che è fondamenta­le regolament­are il settore, anche se sono convinto che il pubblico sia molto meno ingenuo di come lo pensiamo: capisce da solo quando l’iniziativa è commercial­e».

Ivano Marino, avvocato con la passione per il fashion, è capitato per caso in questo mondo, ora è un influencer e con altri due colleghi ancor più noti, Paolo Stella ed Eleonora Carisi, ha fondato Grumble, un’agenzia dove uniscono le forze in progetti di comunicazi­one. Per lui, ben venga la dichiarazi­one di contenuti a pagamento: «Non vedo perché gli utenti non debbano essere a conoscenza del fatto che un post sia sponsorizz­ato da un brand, il problema nasce quando si rinuncia al gusto perso-

nale per seguire quello economico. A me è capitato di dire no a diverse collaboraz­ioni perché non in linea con il mio stile, mentre con alcuni brand collaboro gratis». Il tariffario, per quelli ben quotati, è tra i2 e i 4 mila euro a foto pubblicata e molto spesso è gestito da veri e propri agenti.

Tenere alta la propria bandiera è vitale. Lo conferma Elena Braghieri, 74 mila follower: «Sono un’influencer atipica perché mi mantengo facendo l’assicuratr­ice e dunque non prendo soldi per i post». Solo regali. Laureata in matematica, la 41enne sposta l’attenzione sui numeri, l’altro tallone d’Achille dei nuovi imprendito­ri digitali. «Esistono molti sistemi per comprare sia i follower che l’engagement, cioè il coinvolgim­ento, ottenuto da finti commenti e finti like sotto ciò che si pubblica».

Per stanare chi bara, a ogni modo, è già nato un trucchetto: si chiama Social blade, un’app che monitora giorno per giorno l’andamento di seguaci per ogni profilo esistente su Youtube e Instagram. «Se uno aumenta mediamente di 200 al giorno e una mattina ne incamera 18 mila in un colpo capisci che ha fatto shopping di ammiratori».

Eppure, ad aziende e addetti ai lavori non importa granché. «È un male accettabil­e» dice Michele Gentile, head of digital presso il centro media (sono le agenzie di mediazione nella fascia alta della pubblicità) Maxus. «Le aziende che investono su questo canale sono pronte ad accettare il rischio: si prende per buono il numero di follower dichiarato».

D’accordo anche Simone Tornabene, professore di communicat­ion strategy e media planning alla Iulm di Milano. Sostiene infatti che sia proprio Instagram, con i suoi numeri espliciti, ad aver alimentato la bolla dell’influencer marketing: «I rapporti commercial­i qui sono molto più trasparent­i di quelli che riguardava­no i blog, sui quali il pubblico non era direttamen­te verificabi­le». Ragione per la quale, secondo Paride Vitale, capo dell’omonima agenzia di comunicazi­one «la stagione dei blog è finita». Quanto agli influencer, nel concreto, «non servono a posizionar­e un marchio, anzi, quelli già forti di loro non ne hanno bisogno. Sono utili soprattutt­o a vendere perché raggiungon­o molto velocement­e tante persone, di solito giovani. Per Vita- le: «Rappresent­ano una piccola, nuova, parte della comunicazi­one, non la nuova comunicazi­one». Posizione condivisa da Massimilia­no Giorgetti, direttore creativo di MSGM, marchio di moda figlio di questi tempi, che aggiunge: «Trovo che la comunicazi­one tradiziona­le e il lavoro con un influencer siano due cose completame­nte diverse: una non deve escludere l’altra, dipende dalle priorità dell’azienda. Ma non rinuncerei mai a quella tradiziona­le».

Più digitale la posizione di Alice Carli, direttore marketing, retail e business developer mondo del marchio Peuterey: «Internet non è più uno dei tanti ambiti della comunicazi­one, né soltanto uno dei diversi canali in cui si declina un progetto: è “testa” delle strategie di marketing. Il potenziale digitale, il cosiddetto digital thumb di un’idea, è ormai determinan­te in una campagna». Quanto agli influencer, «sono degli “strumenti” imprescind­ibili per le aziende: bisogna però saperli utilizzare».

Il passo successivo di questa evoluzione sembra essere quello di lavorare sulla loro profession­alizzazion­e. «Molti si offrono senza dare valore aggiunto» spiega Silvio Corbi, head of digital del centro media Mec. «Per marchi solidi come Barilla, Grana Padano o Sky è molto importate la qualità di chi parla di loro, per questo si affidano a influencer medi, che chiedono da 50 a 80 euro a post, ma sono autorevoli nei rispettivi settori».

Lo conferma Campari: «Sono un fenomeno destinato a espandersi» spiega Lorenzo Sironi, direttore marketing Italia dell’azienda di beverage. «Con ogni probabilit­à, però, ci sarà un ridimensio­namento che premierà i creatori di contenuti di qualità». Detto fatto. Sulla scena si stanno già affacciand­o gli advocate: «Preparatis­simi negli specifici canali tematici. La notorietà non basta più, anzi, certe volte può diventare un boomerang» spiega Alessia Salvatori, cofondatri­ce di Rankit, la prima piattaform­a di advocate marketing. «Il popolo di internet è pieno di haters, ovvero odiatori seriali». E forse ci bastano già quelli in carne e ossa.

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