Terrorismo, ora tocca agli islamici
Riconosciamo che è in corso una «guerra di religione». Ma attenzione a scadere in una pericolosa islamofobia militante.
Londra e Parigi stanno conquistando tragicamente il poco invidiabile primato delle capitali europee del terrore. Una scia di sangue infinita, composta di uno stillicidio di atti di violenza, per la quasi totalità opera di fanatici islamisti, che ora però sembrano in grado di suscitare l’emulazione non solo dei propri «fratelli», ma anche dei «miscredenti».
Giunti a questo punto, ciò di cui abbiamo assolutamente bisogno è sgombrare il campo dalle verità di comodo, da quelle spiegazioni a senso unico che ci crogiolano nei nostri pregiudizi e nascondono ciò che più ci spaventa, quello che non sappiamo come affrontare.
Per i seguaci più o meno organici e organizzati di al Qaeda e dell’Isis, quella in corso contro gli «apostati» e i «miscredenti» è, a tutti gli effetti, una guerra di religione: prima ce lo mettiamo in testa e meglio è. È ora di smetterla con il refrain che la religione non c’entra nulla, che le religioni sono solo uno strumento di pace. Nella storia umana sono stati fatti innumerevoli morti nel nome di Dio. Se è vero che nel corso dell’ultimo secolo le cose sono iniziate a cambiare per merito di guide spirituali sempre più illuminate e consapevoli, va anche chiarito che per gli imprenditori del terrore religiosamente ispirati, la «retta via» è disseminata del sangue degli infedeli.
E veniamo all’attacco di Londra. Quello che maggiormente si temeva, alla fine si è verificato. Per ora l’attacco alla moschea è un episodio isolato, la cui gravità non può però essere sottovalutata. Qualcuno ha pensato di «ripagarli con la stessa moneta». Dal fastidio all’insofferenza, dall’intolleranza all’odio: sono le tappe dell’islamofobia militante. Si tratta di un atteggiamento inaccettabile, che è doppiamente pericoloso: perché fa il gioco dei vari al-Baghdadi e perché alimenta quel clima di sospetto reciproco, di diffidenza, di ostilità che mina le fondamenta delle società aperte, di quel patto liberale di convivenza che definisce l’Occidente più di qualunque identità etnica o fede religiosa. Dobbiamo dismettere qualunque indulgenza verso chi soffia sul fuoco della guerra di religione e dello scontro di civiltà.
Ai nostri concittadini musulmani dobbiamo chiedere una maggiore consapevolezza che il loro aiuto è cruciale se vogliamo, tutti insieme, combattere e sconfiggere la piaga dell’odio. A maggior ragione oggi, dopo che abbiamo avuto tragica conferma che la scelta facile della furia omicida non è appannaggio esclusivo di questa o quella appartenenza, abbiamo bisogno di schiacciare ancora più in fretta l’islamismo radicale, prima che il suo «successo» finisca con l’alimentare una spirale senza fine di azioni e reazioni, il cui prezzo sarebbe pagato dalla stragrande maggioranza di innocenti che compongono le nostre composite società.
Dobbiamo smettere di raccontarci che la società multietnica è una benedizione o una maledizione: è la realtà con cui dobbiamo confrontarci, con serietà, civiltà e rigore. Ci piaccia o meno, senza retorica e senza opportunismi «buonisti» o «cattivisti». Si tratta di una sfida troppo grande per lasciarla nelle mani di chi spera di lucrarci consensi o influenza, soldi o voti. Il tempo stringe, cerchiamo di darci da fare prima che sia troppo tardi.