Sulle quote tra i Paesi membri l’Unione europea si gioca il suo futuro
Praga, Varsavia e Budapest vogliono ricevere il sostegno dei partner per quanto riguarda gli aiuti strutturali, ma lo rifiutano quando sono gli altri a trovarsi in difficoltà. Una partita destinata a fare scuola.
La Commissione europea ha avviato la procedura d’infrazione avverso Repubblica Ceca, Polonia, Ungheria. Imputa ai tre Stati dell’Unione di avere disatteso la decisione del 2015 riguardo ai reinsediamenti dei profughi. Con una lettera la Commissione contesta la mancata attuazione della decisione e minaccia sanzioni finanziarie nel caso di spiegazioni insoddisfacenti. In precedenza anche Austria e Slovacchia erano contrarie ai reinsediamenti, ma non sono finite nel mirino della Commissione perché questa dà credito alle loro ultime dichiarazioni che faranno qualcosa di più che in passato. Dall’inizio del programma il numero dei reinsediamenti è stato modesto. Nel 2017, dei 160 mila richiedenti asilo sono stati trasferiti 20.869 individui. Per settembre, secondo la Commissione, ne andrebbero reinsediati altri 13 mila, di cui 11 mila provenienti dalla Grecia e 2 mila dall’Italia.
Il commissario Avramopoulos motiva politicamente la procedura d’infrazione. La solidarietà e la condivisione delle responsabilità sono fra i pilastri della costruzione europea: si tratta di «valori e principi da rispettare senza eccezioni». Egli smentisce la teoria della «solidarietà flessibile» ventilata da Praga, Varsavia e Budapest in base alla quale i nuovi membri dell’Ue (Cechia, Polonia e Ungheria lo sono dal 2004) ricevono il sostegno dei partner per gli aiuti strutturali, lo negano quando sono i partner a trovarsi in difficoltà. La gestione dei flussi migratori richiede sforzi comuni in un settore che non garantisce benefici economici ai Paesi che seguano i criteri di mutua solidarietà «comunitaria» e rispettino il pertinente diritto internazionale.
La divergenza chiama in causa una questione di principio: il confine fra competenze europee e statali in materia di sicurezza nazionale e ordine pubblico. Alla tutela della sicurezza e dell’ordine pubblico si appellano Budapest, Varsavia, Praga. L’afflusso di profughi, e di migranti a qualsiasi titolo, minaccerebbe in maniera così seria gli equilibri sociali interni da richiedere l’adeguata reazione delle autorità: il rifiuto appunto dei reinsediamenti. Quei governi si insinuano nella zona grigia dell’ordinamento europeo che riguarda lo spazio di libertà, giustizia e sicurezza. Il Trattato sull’Unione europea (2009) recepisce il principio internazionalistico della sovranità statale quando entrano in gioco la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico interno. Riconosce agli Stati un «dominio riservato» in certe materie in cui conservano la sovranità anche in opposizione all’ordinamento europeo. I problemi sorgono man mano che l’Unione occupa spazi d’intervento e adotta misure legislative per disciplinare determinate materie in modo armonico in tutto il territorio europeo. È il caso delle politiche migratorie e del riconoscimento di status ai soggetti richiedenti la protezione internazionale.
Tali politiche si collocano nel crocevia fra competenze europee e nazionali. Alcuni governi dell’Est puntano a cristallizzare la distanza fra i Paesi di avanguardia e di retroguardia: i primi sono chiamati a fronteggiare l’impatto dei flussi migratori «per colpa della geografia»; i secondi, «grazie alla geografia», scelgono se e in quale misura farsi carico del problema. La partita fra Bruxelles e le tre capitali è destinata a fare scuola, quale che ne sia l’esito.