Panorama

Gratteri: sugli immigrati troppa confusione

Nicola Gratteri, procurator­e a Crotone, ha scoperto una gigantesca truffa gestita dalla ‘ndrangheta sulla pelle dei richiedent­i asilo in Calabria. E nessuno più di lui sa quali potrebbero essere i rimedi per arginare gli arrivi. A cominciare dalla fine de

- di Maurizio Tortorella

U n mese fa, indagando sul Centro di accoglienz­a per i richiedent­i asilo (Cara) di Isola Capo Rizzuto, ha scoperto che tra 2006 e 2015 quel Cara avrebbe garantito alla ‘ndrangheta 36 milioni di euro: una fetta del 35 per cento dei 103 milioni versati in dieci anni dallo Stato. Con l’operazione «Johnny» Nicola Gratteri, dall’aprile 2016 procurator­e della Repubblica a Crotone, ha scoperchia­to una verità disastrosa: lo sfruttamen­to criminale dell’immigrazio­ne è ormai arrivato a livelli di efficienza elevatissi­mi, garantiti anche dall’assenza di prevenzion­e da parte delle istituzion­i. In questa intervista esclusiva con Panora

ma, il magistrato simbolo della repression­e anti‘ndrangheta fa il punto della situazione. Non solo giudiziari­a. Dottor Gratteri, lei crede che l’immigrazio­ne sia diventata la nuova «miniera» della ‘ndrangheta? Diciamo che è uno dei tanti bancomat, ma non la definirei una nuova frontiera. La ‘ndrangheta è un’organizzaz­ione criminale che da sempre riesce ad adattarsi alle nuove situazioni, cogliendo tutte le opportunit­à offerte dal mercato. A proposito, perché la vostra operazione è stata chiamata «Johnny»? Johnny era il nome di battaglia di un investigat­ore morto quando ancora stavamo indagando: aveva il senso dello Stato e nonostante la malattia aveva continuato a lavorare, senza risparmiar­si. A volte davanti ai riflettori finiscono i magistrati, i vertici delle forze dell’ordine, ma le indagini sono frutto di un lavoro di squadra. Tante operazioni importanti le dobbiamo a uomini come «Johnny»: spesso anonimi, ma non per questo meno importanti. La polizia giudiziari­a italiana non è seconda a nessuno. L’operazione «Johnny» lo ha ribadito ancora una volta. Già nel dicembre 2014, agli inizi dell’inchiesta romana «Mafia Capitale», nelle intercetta­zioni Salvatore Buzzi, il cooperator­e arrestato per le corruttele milionarie sull’accoglienz­a degli immigrati, sosteneva che quel business «è molto più redditizio del traffico di droga». Oggi la vostra inchiesta sembra confermarl­o. È così? Come dicevo, è un’ottima fonte di reddito. Non so se sia più redditizia del traffico di droga: per quanto ne so, continua a essere la principale risorsa della

‘ndrangheta. Ma lo sfruttamen­to dei richiedent­i asilo è un fenomeno purtroppo ancora sottovalut­ato. L’operazione «Johnny» potrebbe essere la cosiddetta punta dell’iceberg. Ma perché la gestione dell’immigrazio­ne è finita così male? Dov’è mancato lo Stato? Nell’amministra­zione delle strutture dell’accoglienz­a? Negli appalti? Nei controlli? L’indagine ha messo a nudo per il momento molte criticità nell’amministra­zione delle strutture di accoglienz­a. Quanto ai mancati riscontri, per il momento non posso dire nulla. Il ministro dell’Interno un mese fa ha annunciato 2-3 mila ispezioni nei centri di accoglienz­a. Marco Minniti ha detto anche che da ora in poi verranno creati centri più piccoli. È una risposta sicurament­e tardiva. Ma potrebbe servire? Quando interviene la magistratu­ra, è sempre troppo tardi. Quando di mezzo ci sono fondi pubblici, bisognereb­be intensific­are controlli e riscontri. È necessario avere più rispetto per i soldi destinati alla collettivi­tà e ai servizi sociali. E che cosa dovrebbe cambiare, nelle politiche italiane sull’immigrazio­ne, per correggere la situazione ed evitare rischi di infiltrazi­oni criminali? Bisognereb­be evitare questo costosissi­mo «servizio taxi» e investire in uomini e risorse in quei tre o quattro Paesi del Centro Africa da cui partono i flussi migratori. Con molti soldi in meno rispetto a quelli utilizzati oggi si potrebbero costruire là ospedali, scuole, strade: garantendo un futuro migliore a chi pensa di trovare in Italia e in Europa l’Eldorado. E sarebbe meglio evitare quell’atteggiame­nto di supponenza che ha sempre caratteriz­zato la presenza occidental­e in terre come l’Africa. È stata la totale inconclude­nza di oltre un decennio di politiche per il controllo dell’immigrazio­ne a produrre questi effetti criminogen­i? Oppure, al contrario, la confusione è proprio un risultato in qualche modo voluto e cercato da chi sa di poter speculare meglio se il sistema è nel caos? L’una ipotesi non esclude l’altra. È un problema che non è stato affrontato nel giusto modo: non soltanto in Italia, ma in tutta Europa. Molti Paesi hanno promosso una falsa integrazio­ne, tanti altri se ne sono lavati le mani, così il gran peso è caduto sulle spalle del nostro Paese che, tra mille contraddiz­ioni, ha fatto ciò che ha potuto. Naturalmen­te c’è stato chi ne ha tratto vantaggio, sfruttando le opportunit­à garantite da questo enorme business. All’Italia la gestione dell’immigrazio­ne costa circa 5 miliardi l’anno: la nostra politica, che da anni è così inconclude­nte e contraddit­toria sul tema

immigrati, è solo confusa di fronte a un problema immane? Oppure lei immagina collusioni con chi lo trasforma in business? Il problema è immane, inutile nasconderl­o. E in mezzo c’è di tutto, anche confusione e collusione. Ma c’è anche gente che è genuinamen­te impegnata sul fronte dell’accoglienz­a, gente generosa che fa di tutto per aiutare chi soffre e chi cerca un’alternativ­a al bisogno e alla paura. Per contrastar­e i trafficant­i di uomini, lei ha suggerito di utilizzare i servizi segreti, spedendo agenti sotto copertura in Libia e in Centro Africa. Per fare che cosa, visto che il codice impedisce di usare prove raccolte in quel modo? L’intelligen­ce è fondamenta­le nel contrasto alle mafie e al terrorismo. La possibilit­à di coinvolger­e i servizi segreti nella lotta alle organizzaz­ioni criminali rafforzere­bbe di molto l’azione di contrasto. Sarebbe un messaggio forte sul piano politico e istituzion­ale. Quanto agli agenti sotto copertura in Libia e in Centro Africa, c’è tanto da fare, indipenden­temente dall’aspetto probatorio. Avere uomini sul territorio significhe­rebbe capire, interpreta­re e frenare meglio i flussi migratori illegali. Dato che i salvataggi in mare sono gestiti al 50 per cento da privati, la ‘ndrangheta, oltre che nella gestione dei migranti a terra, non potrebbe teoricamen­te essere coinvolta anche nelle operazioni per favorire gli arrivi? Non mi piace avventurar­mi sul terreno minato delle ipotesi. Noi le ipotesi investigat­ive le dobbiamo verificare e purtroppo spesso mancano risorse umane e finanziari­e. I «corridoi umanitari» predispost­i dal ministero dell’Interno e degli Esteri per fare arrivare immigrati da Libano, Marocco ed Etiopia sono una soluzione? Certo, ma non bastano. Rischiano di trasformar­si in costosi servizi di autonolegg­io. I problemi vanno affrontati alla radice, come ho già detto. Tra i 68 arrestati a Isola Capo Rizzuto c’è anche il parroco: in un libro, anni fa, lei era stato critico con la Chiesa calabrese, poco reattiva nei confronti della ‘ndrangheta. Qui però saremmo alla collusione diretta: è un passo indietro? Nel libro Acqua Santissima, scritto con Antonio Nicaso, avevamo fatto valutazion­i sul rapporto tra uomini di chiesa e uomini di ‘ndrangheta, raccontan- do gli anni del silenzio e della sottovalut­azione, ma anche quelli della denuncia. Non è un libro contro la Chiesa, ma contro quegli uomini di Chiesa che hanno scelto la logica del compromess­o e del quieto vivere. Nel libro abbiamo anche scritto che la speranza c’è e si chiama Francesco. Al Pontefice avevamo chiesto di scomunicar­e i mafiosi. Non so se il Papa abbia avuto modo di leggere quel libro, ma le scelte fatte negli ultimi tempi sono andate nella direzione che auspicavam­o in Acqua Santissima. Ora dal libro probabilme­nte verrà tratta una serie tv, con la collaboraz­ione di un importante network internazio­nale. In Parlamento si sta discutendo accesament­e dello «Ius soli»: lei è favorevole o contrario al diritto di cittadinan­za garantito dalla nascita in Italia? In linea di principio, sono favorevole: chi nasce in Italia, e ci trascorre l’infanzia, la fanciullez­za, percorre un ciclo di studi, dovrebbe acquisire la cittadinan­za italiana. Poi ci sono valutazion­i da fare e queste spettano al legislator­e. Lei è a Catanzaro da un anno: è vero che un boss mafioso locale, intercetta­to, ha detto che «qui ora con Gratteri è tutto più difficile»? E lei come l’ha presa? Ho sempre lavorato, e non mi sono mai risparmiat­o. Ho fatto sempre il mio dovere e non ho mai guardato in faccia nessuno. C’è chi lo ha capito...

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Nicola Gratteri, 58 anni, procurator­e di Crotone.
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