I luoghi d’acqua e di silenzio di Zadie Smith
La passione per jazz e blues, le fughe in Giamaica e i drink a Manhattan. La scrittrice inglese Zadie Smith racconta passioni e segreti. Come le passeggiate, da sola, al cimitero di Londra.
Sembra parlare di se stessa in questa frase del nuovo romanzo: I capelli non sono essenziali
quando assomigli a Nefertiti. Turbante rosso e lentiggini, Zadie Smith appare come la regina egiziana mentre a Roma racconta di Swing Time, l’ultimo lavoro appena uscito per Mondadori (420 pagine, 22 euro). È la storia dell’amicizia inquieta tra due ragazzine nella Londra dei sobborghi multietnici. Un mondo fatto di ombre, di bianco e nero come i musical anni Trenta, che le bambine guardano e riguardano. Nostalgia di un’epoca, la danza come scalata sociale e l’insicurezza di un tempo come il nostro, troppo oscillante. Le due protagoniste attraversano insieme infanzia e adolescenza tra sogni, paure e umilianti giochini sessuali. È davvero l’età più crudele della vita? Succede tutto per la prima volta, entri in una nuova realtà. È un periodo di una certa intensità, lo è stato per me come scrittrice. Gli scrittori di solito si caratterizzano per ricordare intensamente la propria infanzia. Tuttavia ho una pessima memoria, non ricordo nemmeno la data della morte di mio padre. Mi restano impressi i dettagli: un tappeto, una certa finestra, il poster di un torero. Da piccola cantava e ballava, come le protagoniste. Cosa le è rimasto del suo swing time? Preferivo cantare che danzare, nella mia famiglia eravamo tutti un po’ artisti. Che io cantassi non era poi una gran cosa. Così ben presto questa passione lasciò il posto a quella più grande: la lettura. Quali sono stati i primi amori letterari? Roald Dahl, il giamaicano Andrew Salkey. E poi Charles Dickens e il suo Grandi Speranze. E la musica? Ascoltavo i dischi di mio padre: Billie Holiday, Sarah Vaughan, Ella Fitzgerald. Amo ancora il jazz e l’hip hop, ma oggi a 41 anni e con due figli mi tocca sentire la loro musica terribile, cose come Katy Perry. Dove si sente più a suo agio? In estate mi piace andare a nuotare nel laghetto per
signore del parco di Hampstead Heath a Londra. E poi tutta la zona di Kilburn High Road dove sono cresciuta, ovunque nel nord di Londra mi sento a casa. Sono affascinata dai cimiteri, grandi spazi per passeggiare nel silenzio. Come Highgate, dove è seppellito Karl Marx e ci sono le ceneri di Freddie Mercury. Ha vissuto a Roma. Dove torna volentieri? A Piazza Madonna dei Monti, all’ombra del Colosseo. E sedermi al caffè sotto il pergolato di tralci di bougainvillea rosa, affacciato sulla fontana. Forse questo è il luogo dove sono stata più felice. Con mio marito abbiamo sempre sognato di tornare a Roma, a quella vita morbida. Avevamo il meglio di noi, senza fare nulla. Dove vorrebbe andare con i suoi figli? In Giappone, magari anche da sola. E poi in Cina che non ho mai visitato, in Sudamerica e in Africa. È stata in Giamaica. Che rapporto ha con la terra di sua madre? È bellissima, selvaggia, la sabbia rossa e il mare mosso, dove è difficile nuotare. Parlo di quella parte dell’isola quasi sconosciuta. Non sono mai stata a Kingston o a Montego Bay. Vado a Saint Elizabeth, c’è un festival molto interessante, il Calabash, e un piccolo hotel fuori dal mondo il Jake’s. Dove le piace dormire? Se non vivessi a New York mi piacerebbe svegliarmi al Crosby Street Hotel a Soho, Londra. C’è un posto a Manhattan dove ama fermarsi? Vado tutti i giorni al bistrot Lafayette. Prepara ottimi Martini. Sono fortunata ad averlo vicino a dove vivo, non amo spostarmi. Nel libro racconta di molti film, quale resta il suo preferito? Philadelfia, vecchio ma efficace. Dove compra i suoi turbanti? Per strada a Manhattan, costano 5 dollari. Credo che siano sarong. Ho provato con qualcosa di più costoso, ma non funzionava. Una volta disse che scrivere «è il tentativo di palesare l’io sfuggente, dai mille volti». Questa volta a cosa ha pensato per rivelarlo? A una frase di Salman Rushdie: «Le nostre vite ci insegnano chi siamo».