Natura in un battito d’ali
Le trasformazioni della materia nelle opere di Giulia Manfredi, in mostra a Spoleto dal 2 luglio.
C’è sempre un patto di condivisione che gli artisti stabiliscono col mondo, e che non stracciano, per quanto la crepitante evanescenza di certe supertecnologie sembri consigliare loro il contrario. Ogni volta, di nuovo, tornano lì: a pensare a una linea d’orizzonte, a scrutare un tronco d’albero, a soppesare una pietra, ad ammirare una notte. Ma se, per esempio, dire «natura» ai tempi dei pittori che abbiamo più amato, gli impressionisti, significava contemplare alberi al vento, uno scintillio sul fiume, oggi quella parola si estende smisuratamente e comprende sia ciò che è microscopico, la vita minima, sia l’universo. Sul radar degli artisti contemporanei i bip sono
infiniti? È così, e sempre più spesso il gesto stilistico e simbolico che ne deriva è l’unico che davvero si possa avere, quello della connessione, che stabilisce legami, che avverte analogie, immaginando che non ci sia una sola, remota costellazione che quaggiù, anche appena intravista sulla superficie di una foglia, non abbia il suo riflesso. In questa prospettiva, chi produce arte oggi può ancora sentirsi platealmente romantico. Come Giulia Manfredi, nata a Castelfranco Emilia (Modena) nel 1984, formatasi all’Accademia di Bologna e poi nelle università di Berlino.
Dal 2 luglio all’1 settembre terrà nella galleria ADD-art di Spoleto (Palazzo dei Duchi, 6), in occasione della 60a edizione del Festival dei Due Mondi, una mostra curata da Alessia Vergari e intitolata
Katabasi. Ecco l’artista emiliana, come già la si vide qualche anno fa, sintonizzare tra loro solidità e impermanenza, l’opaco e il trasparente, il liscio e il rugoso, un chiarore e il buio, cristalli di sale e rami, resine e vegetali, in un abbraccio che salva, in una luce da sottosuolo esplorato. Il suo tema prediletto sembra quello del tempo che scorre, e che l’arte può fermare, o del quale possa darci almeno una visione accettabile. «In questa mostra ho cercato la
combinazione tra tecniche diverse, tra l’utilizzo del video, che mi porto dagli anni berlinesi, e la scultura in marmo verso la quale mi spinge Roma, dunque tra ciò che è effimero e si muove e ciò che è immobile» dice Giulia Manfredi a Panorama. «Il cuore di questa mostra è la mia sensibilità per le trasformazioni e gli accostamenti dei materiali». Ma è vero o no che la natura continua ad agire e
a contare molto nell’ispirazione degli artisti di oggi? «Sempre di più, proprio perché in questo momento non la percepiamo più come un rifugio sicuro ma, minacciata com’è, abbiamo paura di perderla. D’altra parte il senso di transitorietà, in generale, io lo sento molto, l’ho riversato anche in un’opera dove ali di farfalla si poggiano sul marmo. Le ali di farfalla sono delicatissime, come le tocchi si scolorano o si sbriciolano. Molto di noi resta, le nostre ossa sono come il marmo, ma moltissimo si perde, in fondo non esistiamo che in un battito d’ali».