Panorama

La strage dimenticat­a

Un anno fa a Dacca un gruppo di fanatici ha massacrato 20 ostaggi in nome della guerra santa. Tra di loro c’erano nove italiani in trasferta di lavoro. I loro parenti chiedono informazio­ni. E vorrebbero riavere qualche oggetto personale. Ma parlano al ven

- Di Maurizio Tortorella

1 LUGLIO 2016

Un totale di 27 morti: i 20 ostaggi uccisi dal commando jihadista, più due agenti di polizia e cinque dei sei (o forse sette) terroristi. È questo il bilancio finale della strage di Dacca, capitale del Bangladesh, avvenuta esattament­e un anno fa e oggi vergognosa­mente dimenticat­a. Nove di quei 20 innocenti erano italiani, tutti lì per lavoro: imprendito­ri e dipendenti che il fato, intorno alle 21 di quel maledetto 1 luglio 2016, aveva riunito allo Holey artisan bakery, ristorante di un quartiere residenzia­le poco distante dalla nostra ambasciata ( foto). Altri 13 ostaggi erano stati liberati dalle forze armate bengalesi nel blitz scattato con molto ritardo, alcune ore dopo l’attacco, mentre un altro presunto membro del commando era stato catturato in agosto. I terroristi erano entrati nel locale lanciando granate e avevano sequestrat­o tutti i presenti. A quel punto, avevano selezionat­o i non islamici e poi avevano infierito su di loro straziando­ne i corpi. L’obiettivo era uccidere lentamente, mutilando con il machete e con altre armi da taglio, senza mai infliggere il colpo di grazia. I terroristi erano tutti bengalesi ventenni, colti e appartenen­ti alla classe media. Tra loro anche il figlio di un importante esponente dell’Awami league, la Lega popolare bengalese, cioè il partito al governo. Forse anche per quel motivo, il ministero degli Interni di Dacca aveva negato ogni collegamen­to con l’Isis, malgrado le esplicite rivendicaz­ioni dell’attentato.

Il 6 giugno Graziella Riboli ha riavuto indietro la borsa e il portafogli­o di sua sorella Maria. «Mi sarebbe piaciuto ricevere anche il cellulare» dice con un filo di voce «perché magari avrei potuto trovarci le sue ultime foto. Non so proprio perché non ce lo abbiano restituito. Però non mi lamento: dopo tutto, io ho avuto fortuna. Tra di noi c’è chi non ha mai riavuto nulla». Graziella non piange nemmeno di fronte all’ultimo sfregio, a questa nuova offesa alla memoria; e tira avanti malgrado il terribile lutto che ha subìto. Pensa alla marcia che l’1 luglio, primo anniversar­io della strage che le ha strappato Maria, vedrà tanta gente camminare per i sentieri della Val Cavallina, la verde valle del fiume Cherio che scorre ai piedi delle Alpi Orobie, nella Bergamasca. E sorride, quando dice: «Mia sorella aveva solo 33 anni, era una ragazza piena di vita e di calore e adorava quei posti. La ricorderem­o così».

Come Graziella, nessuno dei familiari delle nove vittime dimenticat­e di Dacca, in Bangladesh, ha un atteggiame­nto polemico, recriminat­orio, o aggressivo. Ed è l’aspetto insieme più commovente e dignitoso di queste famiglie, tutte segnate dal dolore. Perché da un anno esatto, a parte qualche rara cerimonia ufficiale peraltro inevitabil­e, come l’arrivo a Ciampino delle bare scaricate da un Boeing 767 dell’Aeronautic­a alla presenza del presidente della Repubblica, lo Stato per loro non ha fatto molto. Eppure la strage dei nove italiani di Dacca, torturati e sgozzati uno dopo l’altro in un ristorante da un commando dell’Isis, in una folle notte di sangue a 9 mila chilometri da casa, resta un momento terribile per il Paese. Nella nostra storia recente, a parte l’orrore di Nassirya con i suoi 19 soldati uccisi, non ci sono altre carneficin­e di paragonabi­le violenza. Ma su Dacca è caduta una spessa coltre di silenzio. E da allora nove famiglie vivono senza notizie certe sull’inchiesta, senza percepire alcuna pressione delle nostre istituzion­i sulle autorità bengalesi perché sia fatta luce su quei poveri morti.

Sono sole, le nove famiglie, e non avvertono alcuna partecipaz­ione alla loro sofferenza. Nessuno espone cartelli gialli su Comuni e Municipi, chiedendo una verità per i morti di Dacca. «Io non voglio fare polemica» sussurra Massimo Cappelli, pensionato di Vedano al Lambro, vicino a Monza, «perché Giulio Regeni merita il massimo rispetto e il suo è un caso grave, come il nostro. Ma non posso non notare la differenza. Della strage degli italiani nel ristorante di Dacca non si sa nulla. E la nostra ferita è sempre aperta forse anche perché non ne conosciamo nemmeno la dinamica».

Il figlio di Massimo, Claudio Cappelli, aveva 45 anni ed era in Bangladesh per lavoro, come piccolo imprendito­re dell’abbigliame­nto. Ha lasciato una bimba, oggi di sette anni. Anche Massimo Cappelli, come Graziella Riboli, non ha mai riottenuto il cellulare del figlio, attraverso il quale i due stavano parlando proprio alle 21 dell’1 luglio 2016. È lì che Massimo ha sentito in diretta l’attacco, e ha compreso che era l’inizio di una terribile agonia: «Il telefono di Claudio è sparito» si limita a dire, ma si capisce che il suo cruccio pesa come una montagna. «Non so nemmeno se a Dacca sia in corso un’inchiesta» aggiunge. «Non sappiamo neppure quanti fossero gli attentator­i, ci hanno detto che tra loro c’erano figli di alti gradi dell’esercito, forse anche di qualche politico. Il punto è che noi da qui possiamo fare solo congetture. Non sappiamo davvero nulla».

A Roma, in realtà, c’è un magistrato che segue l’inchiesta dalla sponda italiana: è il sostituto procurator­e Francesco Scavo. Ha disposto le autopsie. Ora è sicurament­e impegnato con complesse rogatorie internazio­nali. «Con lui abbiamo avuto un incontro, in autunno. Da allora comunichia­mo attraverso gli avvocati» dice Cappelli «ma temo abbia problemi di budget». E lei ha mai sentito nessuno dal ministero della Giustizia? «No» è la risposta secca.

La solitudine è il tratto comune di tutte le famiglie delle vittime di Dacca. «Se non avessimo scritto continuame­nte alle varie istituzion­i, credo che nessuno si sarebbe ricordato di noi» mormora Cristina Rossi. Cristina è una delle tre sorelle di Cristian Rossi, piccolo imprendito­re udinese dell’abbigliame­nto, partito da Feletto Umberto e morto a 47 anni nella mattanza di Dacca. Cristian ha lasciato due gemelline, oggi hanno 4 anni. Mesi fa Cristina è andata a Dacca a sue spese, con le sue sorelle Gabriella e Daniela: «Volevamo mettere una targa a suo ricordo, da qualche parte. Ma non siamo riuscite a farlo né in ambasciata, perché si dovevano spostare, né altrove. Così l’abbiamo lasciata nel suo ufficio. Oggi stiamo

insistendo con il Bangladesh e con il nostro governo perché ci sia un piccolo monumento, un segno, a ricordo delle nostre vittime».

Qualche timido segnale d’interesse, qua è là, è arrivato. Lo scorso 9 maggio il presidente del Senato, Pietro Grasso, ha ricevuto i rappresent­anti delle nove famiglie con quelle di altre vittime del terrorismo. «Però nessuno ci aveva chiamato: ci siamo proposti noi» protesta sommessame­nte Fabio Tondat, operaio, 45 anni. «Siamo arrivati a Roma la mattina con il treno, a nostre spese. Proprio come il 2 novembre, quando siamo andati alla Farnesina per avere informazio­ni sull’inchiesta: è stata una nostra iniziativa». Marco Tondat, suo fratello, aveva 39 anni quando i terroristi dell’Isis l’hanno sgozzato. Fabio è forte: non fa più nemmeno caso alla freddezza delle istituzion­i e trova conforto nella comunità di Cordovado, a pochi chilometri da Udine. «Qui ci sono tutti vicini e l’1 luglio l’auditorium sarà intitolato a Marco» dice. «Mi sconvolge però non sapere ancora nulla. Abbiamo chiesto al ministero degli Esteri, al pm Scavo. Nulla. Sappiamo che, quando è finito il blitz, li hanno portati in una caserma. Ci hanno detto che i cadaveri erano nudi e martoriati. Tutto il resto è nebbia».

Il capo dello Stato, Sergio Mattarella, riceverà le nove famiglie il 13 luglio. Il gesto è stato molto apprezzato, come un’isola nell’oceano dell’abbandono. «Il primo a chiamarci tutti insieme è stato Papa Francesco, l’11 febbraio scorso» ricorda Cappelli. «È stato un incontro confortant­e». La fede aiuta qualcuno dei familiari. «Dopo quella notte terribile» aggiunge Cappelli «nessuno di noi ha imboccato la strada dell’odio. Oggi chiediamo solo di non essere dimenticat­i». Che la politica abbia voltato lo sguardo dall’altra parte, però, è innegabile. Proprio come hanno fatto giornali e tv. E nessun attore, nessun cantante ha pensato di chiedere da un palco che venga fatta luce sulla strage dimenticat­a di Dacca. Potrebbe farlo forse Vasco Rossi nel suo megaconcer­to di Modena, visto che si terrà proprio la notte dell’1 luglio.

Da Caserta Maria Gaudio, vedova di Vincenzo D’Allestro ucciso a 46 anni, ipotizza che sulla rimozione collettiva possa avere proiettato un’influenza nefasta l’aura di sfruttator­i che pare circondare da sempre chi va a fare impresa in Bangladesh. «Ma in molti casi è una mistificaz­ione» aggiunge con durezza. «E poi tra i nostri morti c’è anche chi, come mio marito, non era imprendito­re, ma solo il dipendente di una ditta italiana». Anche Maria è lì che aspetta: attende comunicazi­oni da Roma, e qualche oggetto di suo marito, un ricordo: «Io non ho mai avuto indietro non solo il cellulare, ma nemmeno la fede, i suoi documenti…».

Per tenersi più unite, le famiglie di Dacca comunicano via WhatsApp: hanno una chat dove fanno girare notizie, foto. Nelle ultime settimane gli scambi hanno riguardato le iniziative per la memoria, in calendario per l’1 luglio: una panca in una chiesa, una mostra, un nuovo libro, un’associazio­ne benefica. Le istituzion­i, invece, latitano.

Una delegazion­e della Regione Lombardia volerà a Dacca per tre giorni, a cavallo dell’anniversar­io. «Nessuno si faceva carico di questa sofferenza e mi pareva ingiusto» dice Marco Tizzoni, consiglier­e regionale della Lista civica per Roberto Maroni. «Così partiamo io e Simone Codara, il marito di Maria Riboli che ora è anche disoccupat­o. A Dacca ci troveremo con Gian Galeazzo Boschetti, vedovo di Claudia Maria D’Antona, un’altra delle vittime. Cercheremo di capire qualcosa sulle indagini e porteremo fiori sul luogo della strage. Partiamo a mie spese, però, perché non c’è una legge che preveda aiuti per le vittime del terrorismo. Ma mi pareva impossibil­e non aiutare Codara. Al mio ritorno, ne ho già parlato con il governator­e, in Regione vareremo una norma».

E questa, da un anno, è la prima promessa concreta per le nove famiglie dimenticat­e di Dacca.

«CHIEDIAMO ALMENO GLI OGGETTI DEI NOSTRI CARI»

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Il Papa ha ricevuto i familari delle vittime di Dacca in Vaticano,
 ??  ?? SIMONA MONTI 33 anni, dipendente di un’azienda tessile, di Magliano Sabina (Rieti), incinta di poche settimane.
SIMONA MONTI 33 anni, dipendente di un’azienda tessile, di Magliano Sabina (Rieti), incinta di poche settimane.
 ??  ?? 46 anni, dipendente di un’impresa d’abbigliame­nto di Nola (Napoli), nato in Svizzera ma casertano d’origine. VINCENZO D’ALLESTRO
46 anni, dipendente di un’impresa d’abbigliame­nto di Nola (Napoli), nato in Svizzera ma casertano d’origine. VINCENZO D’ALLESTRO
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 ??  ?? MARIA RIBOLI 33 anni, dipendente di una ditta di abbigliame­nto, di Solza (Bergamo).
MARIA RIBOLI 33 anni, dipendente di una ditta di abbigliame­nto, di Solza (Bergamo).
 ??  ?? 56 anni, titolare dell’azienda Fedo trading di Dacca, torinese. CLAUDIA D’ANTONA
56 anni, titolare dell’azienda Fedo trading di Dacca, torinese. CLAUDIA D’ANTONA
 ??  ?? CLAUDIO CAPPELLI 45 anni, titolare della Star Internatio­nal (abbigliame­nto), di Vedano al Lambro (MB).
CLAUDIO CAPPELLI 45 anni, titolare della Star Internatio­nal (abbigliame­nto), di Vedano al Lambro (MB).
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NADIA BENEDETTI 52 anni, manager della britannica StudioTex Limited, viterbese.
 ??  ?? MARCO TONDAT 39 anni, imprendito­re nel settore tessile, di Cordovado (Udine).
MARCO TONDAT 39 anni, imprendito­re nel settore tessile, di Cordovado (Udine).
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CRISTIAN ROSSI 47 anni, imprendito­re dell’abbigliame­nto, di Feletto Umberto (UD).
 ??  ?? 54 anni, manager della Artsana, Catanese. ADELE PUGLISI
54 anni, manager della Artsana, Catanese. ADELE PUGLISI
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l’11 febbraio scorso.

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