Iraq, un Paese da disseppellire
Il lavoro parallelo di sminatori e archeologi in Iraq. Perché la ritirata dell’Isis ha lasciato un’altissima concentrazione di mine e una distruzione di reperti senza precedenti.
«L’Isis ha distrutto i nostri siti perché vuole cancellare la nostra storia».
Mentre il cielo si copre di nubi, la terra comincia a tremare. Gli aerei sganciano bombe sui palazzi in bilico; i soldati corrono come formiche tra gli squarci lasciati dai mortai e dalle granate. Artificieri che grondano sudore scavano a mani nude tra le macerie, non di rado finendo vittime loro stessi degli ordigni che sono chiamati a disinnescare, mentre gli archeologi vincono la paura, pur di mettere mano sui luoghi sacri profanati (o portati miracolosamente alla luce) dalla foga distruttiva dei miliziani.
Una mattina di luglio del 2014 Mosul fu scossa dal frastuono proveniente dalla collina di Nabi Yunus. Alla distruzione di quel luogo sacro e simbolico seguì una lunga stagione di violenze, culminata il 20 giugno con la fatale esplosione della moschea di al-Nuri e del suo minareto, da cui Abu Bakr al Baghdadi ha tenuto il suo primo e unico discorso a viso aperto. Qualche mese fa, tra quelle stesse macerie, l’archeologa Layla Salih ha fatto una scoperta stupefacente. «Mai avrei immaginato che fosse l’Isis a riportare involontariamente alla luce il palazzo del sovrano assiro Esarhaddon del VII secolo a.C.» racconta. «Negli anni Ottanta i miei colleghi avevano eseguito degli scavi all’esterno del colle, e fatto emergere i profili di due lamassu ( divinità con corpo di toro o leone, volto umano e ali d’uccello, ndr) riconducibili all’epoca assira, ma poi le autorità musulmane non ci hanno mai permesso di andare a fondo in questo mistero».
Oggi le forze armate sono prossime a sconfiggere l’Isis, che conta ormai poche centinaia di miliziani, eppure il Paese è sempre più frammentato e non passa giorno senza che vengano commessi soprusi. L’Iraq di oggi non è diverso da quello di ieri, quando un governo sciita e segregazionista si era reso colpevole di aver spinto parte della popolazione sunnita tra le braccia jihadiste. Ma sotto la superficie di un Paese, dove ci s’illude che le battaglie si risolvano solo con le armi, stanno eroi e martiri che lottano quotidianamente per far emergere verità scomode, con la forza di emozionare ma anche di far tremare.
Nonostante Mosul giaccia sui resti dell’ultima capitale assira Ninive, solo il 5 per cento di questo tesoro (custodito quasi interamente all’interno della città vecchia, ancora controllata dall’Isis) è stato portato alla luce negli anni. Per questo motivo, mentre Salih cammina nei tunnel scavati dall’Isis e osserva i reperti che i miliziani hanno abbandonato dietro di sé, non si sofferma su prolisse descrizioni tecniche, ma si limita a esternare il proprio stupore.
Dai pochi documenti bruciati e salvati dal Museo di storia nazionale, come dalle ceramiche ritrovate nelle case di alcuni miliziani, Salih ha la certezza che lo Stato islamico abbia trafugato molte opere dal palazzo. «L’Isis ha distrutto i nostri siti non solo perché ci considera infedeli o idolatri, ma perché vuole cancellare la nostra storia» spiega il suo collega Faisal Saber. «Per questo motivo è dovere di questo Paese proteggerli e salvare la nostra identità». La guerra che volge al termine si impone anche sui due archeologi, che non solo devono confrontarsi con i continui scambi a fuoco, ma anche con i tanti ostacoli che il conflitto comporta. Dopo oltre due mesi, i pochi resti delle razzie compiute a Nabi Yunus non sono ancora stati spostati. Non potendo prevedere la piega che prenderanno gli eventi, Salih e Saber fanno di tutto per tenerli nascosti. Nabi Yunus per Salih ha un forte valore artistico (oltre che metaforico) e, assieme al museo saccheggiato dai miliziani e situato nella parte ovest della città, è la sua priorità. Nonostante il museo sia stato liberato a maggio, poiché si trova a pochi metri dal fronte, per raggiungerlo occorrono estenuanti ore di macchina, decine di posti di blocco e il permesso della polizia federale preposta al suo controllo.
Prima di entrare in qualunque quartiere liberato, la prassi prevede di inviare in loco un’unità di attacco e un artificiere, per identificare e disinnescare gli ordigni inesplosi nascosti dal nemico. Così è successo anche nell’area del Museo poco più di un mese fa. «Faccio questo lavoro dal 2003 e non ho paura» racconta Sabah Hassan, embedded con la 16ma divisione dell’esercito iracheno impiegata a Nord-Ovest, ad alcuni chilometri dal museo. «Da quando lavoro in prima linea, però, più degli Ied ( improvised explosive device, ovvero gli or- digni artigianali, ndr), mi preoccupano i cecchini che sparano a raffica». Checché ne dica Sabah, i dispositivi dei miliziani farebbero sbiancare anche i khmer rossi, ben noti per la produzione di mine. E così, a Mosul, trovi gli archeologi che scavano per salvare i reperti e gli artificieri che scavano per disinnescare le bombe e salvare vite umane.
I congegni non sono più solo antiuomo, che alla peggio mutilavano un piede o una mano. Contengono almeno sette chili di esplosivo, sei più di una mina, e sono in grado di distruggere persino un carrarmato. Hassan entra in una fabbrica di Ied appartenuta all’Isis dove, a parte rinvenire grandi pentoloni e forni arrugginiti (e due miliziani mummificati crivellati dai colpi dei soldati), a impressionarlo è la gran quantità di alluminio. L’esplosivo prodotto dall’Isis è raffinato, contando su fertilizzanti, nitrato di ammonio (bandito nell’Ue e negli Usa) e benzina, ma a renderlo letale è la polvere di questo metallo.
Zigzagando per le strade bloccate dai veicoli lasciati di traverso per contrastare le autobombe, in mezzo a basi militari che rappresentano l’unico segno di vita di quartieri altrimenti abbandonati, il convoglio arriva nel quartiere di al-Rifai appena liberato. Dove prima c’era un parcheggio di automobili, ora c’è una distesa di macerie e proprio lì, nascoste tra fili trasparenti e interruttori a pressione su cui è facile inciampare, si nascondono taniche piene di letale polvere esplosiva. «L’esercito ripulisce solo aree chiave per consentire ai colleghi di procedere con l’offensiva» spiega Alex Van Roy, responsabile della Fondazione svizzera per lo sminamento (Fsd). «Ma il nostro lavoro, che consiste nello sminamento umanitario a favore delle popolazioni civili, è effettivo al 100 per cento».
La Fsd s’interessa alle «zone grigie» che, situate spesso alle spalle di aree in mano all’Isis, sono controllate dai curdi su mandato delle autorità irachene. La regione autonoma curda non è nuova all’alta concentrazione di mine di terra utilizzate come armi belliche. «Con l’Isis però siamo di fronte a un fenomeno inedito» dice Southern Craib del Gruppo di sminamento danese (Ddg). «Mai prima d’ora abbiamo avuto a che fare con tante mine improvvisate, ordigni Ied e trappole esplosive dalle forme più svariate». L’ex Stato islamico è un gigantesco campo minato. E mentre le autorità sono occupate in battaglia, gli ignari cittadini di ritorno a casa o nei campi si lasciano spesso fatalmente ingannare da un oggetto, un pupazzo e, perfino, dal sacro Corano. Il 19 giugno la stessa sorte è toccata pure ai giornalisti francesi Stephan Villeneuve e Véronique Robert e all’iracheno Bakhtiyar Addad, feriti mortalmente da un’esplosione di una mina, mentre stavano preparando un reportage sulla battaglia finale di Mosul nella città vecchia.
Van Roy può contare su una squadra
di uomini piccola ma ben preparata. Ciononostante non nasconde la sua preoccupazione. «I primi target degli ordigni dell’Isis sono l’esercito e gli sminatori» spiega. «E se i soldati sono in genere poco preparati e ancora gestiscono gli Ied come fossero mine, anche i nostri uomini sono sorpresi dalla brutalità e inventiva del nemico». Mentre entrambi i governi (curdo e iracheno) esitano a investire sullo sminamento a fine umanitario, che richiede tempi lunghi e materiale costoso, le organizzazioni continuano a perdere uomini. «Ogni giorno che le forze armate conquistano un lembo di terra, il nostro lavoro aumenta» spiega Van Roy. «Le risorse però rimangono le stesse».
Intanto, oltre il Monte Makloub, che fa da confine naturale tra Iraq e Kurdistan a nord di Mosul, tre giovani archeologhe italiane sospirano di fronte alle immagini dei tesori di Nabi Yunus. Francesca Simi, Chiara Coppini e Katia Gavagnin fanno parte di una missione organizzata dall’Università di Udine che, in partenariato con il ministero delle Antichità di Dohuk, si occupa di valorizzare l’inesplorata Terra di Ninive, considerata il granaio e l’immenso abbeveratoio dell’antica capitale assira.
Scopo del progetto è collegare le opere monumentali, come i rilievi rupestri di Khinis o l’acquedotto di Jerwan, in un grande parco archeologico. L’obiettivo è premiare l’evoluto impegno ingegneristico del sovrano assiro Sennacherib, ma pure il valore simbolico di monumenti dal forte carattere autocelebrativo. «Vari studiosi sostengono che i giardini pensili di Babilonia si trovassero in realtà a Ninive, nel palazzo fatto costruire da Sennacherib» racconta Gavagnin. «Per dare da bere a tutte le piante e agli animali selvatici, a loro avviso servivano risorse d’acqua portentose, gestite proprio da questo sistema di canali». Il parco archeologico (e futuro polo turistico) dovrebbe essere completato a dicembre. Peccato però che la guerra e l’assenza di comunicazione tra curdi e iracheni non consentano la realizzazione di un’unica attrazione transfrontaliera.
Sono passati tre anni dall’esplosione che ha riportato alla luce il palazzo assiro. Soldati e sminatori si trovano su un avamposto militare curdo, a pochi metri da un altro fronte jihadista. Lo sminatore Van Roy fa detonare una pila di ordigni inesplosi. Al botto infernale segue una colonna di fumo marrone. Mentre gli spettatori scaricano la tensione applaudendo, la terra si accende di una luce surreale.