IO ELEGGO DA SOLO IL PIANO DI RENZI PER LE POLITICHE
Ostile verso i compagni di partito, chiuso in se stesso dopo il flop alle amministrative, il segretario Pd seleziona la falange di fedelissimi da candidare al prossimo voto. Vuol far valere, tra l’altro, la regola dei tre mandati, col risultato di molti e
Soltanto nell’ultima settimana Matteo Renzi ha rivendicato di avere combattuto la povertà, abbassato le tasse al ceto medio, creato centinaia di migliaia di posti di lavoro, in attesa di «superare la soglia del milione di nuovi occupati». Purtroppo per lui, gli statistici lo hanno subito smentito. L’Istat certifica che: in Italia quattro milioni e mezzo di persone vivono nell’indigenza; nel primo trimestre del 2017 la pressione fiscale è salita al 38,9 per cento, con un aumento dello 0,3; a maggio 51 mila persone hanno perso il posto di lavoro e il tasso di disoccupazione è salito all’11,3 per cento.
Ecco, una delle regole fondamentali della comunicazione politica è semplicissima. Riprende il vecchio proverbio che invita a «informarsi prima di parlare». Insomma, nel circo dei partiti tutti sanno che prima di esporsi in modo così palese, bisogna documentarsi. A Renzi, o a chi per lui, sarebbe bastato fare una telefonata all’Istat per chiedere un anticipazione sui dati poi diffusi. Ma l’ex premier, nonostante il ciclo di sconfitte elettorali, continua a procedere a braccio, anzi a stomaco, vivendo in un mondo tutto suo, parallelo.
Non a caso dentro il Partito democratico sono preoccupatissimi. Persino dal suo cerchio ristretto raccontano di come dopo ogni elezione persa «Matteo abbia sempre smarrito nell’immediato lucidità, ma questa volta è diverso, è peggio». Chiuso in se stesso, anche fisicamente (si è ricavato un ufficio nella sede del Nazareno, blindandolo con una porta di ferro e acciaio), Renzi sta subendo una sorta di depressione post-elettorale per cui ha accentuato la sindrome da accerchiato. Solo che invece di combattere la patologia immergendosi nella realtà, la aggrava con i suoi comportamenti ostili. Per esempio, lunedì 3 luglio, il segretario si era ormai deciso a far cadere, e cruentemente, la giunta regionale toscana. Il governatore Enrico Rossi, infatti, è uno dei fondatori di Mdp, il partito di Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema. Ma la gran parte dei consiglieri regionali è (era?) renziana. Pare che la loro risposta, suppur riservata, sia stata fredda, anzi freddissima: «Al momento non ci sono le condizioni». Per Matteo nuovi avversari dem all’orizzonte, e persino in Toscana? Di sicuro Renzi si è procurato molti nemici anche quando potevano non esserlo: nei giornali che un tempo lo osannavano, nei sodali di un tempo (Giuliano Pisapia e Angelino Alfano), nelle icone che hanno accompagnato la sua ascesa (Giorgio Napolitano e Romano Prodi), nei personaggi che egli stesso ha lanciato e rilanciato (Beppe Sala e Sergio Chiamparino). Soprattutto, ed è questa la vera angoscia dei dem, il segretario è restio ad accettare che in questa fase il suo vero, unico, grande nemico sono gli italiani-elettori. In Transatlantico l’ipotesi che circola è feroce, seppur verosimile: «Se continua così, alle elezioni Matteo finisce terzo dietro il centrodestra e i 5 Stelle...».
Una situazione che sta creando ulteriore depressione in gruppo dirigente già pronto alla resa dei conti per ragioni non solo politiche ma anche economiche. La prima criticità dipende dal Consultellum. Stante la legge elettorale vigente, Renzi potrà «scegliersi» di fatto gli eletti. E comunque, se pure il Pd dovesse vincere le prossime politiche (un’ipotesi al momento davvero remota), almeno due quinti degli attuali parlamentari rimarrebbero a casa, alcune delle quali peraltro esposte verso le banche con i mutui (sembra una battuta cattiva, ma non lo è: molti deputati e senatori dem vivono di politica, non hanno null’altro).
La seconda destabilizzazione investe invece i vitalizi dei parlamentari. La discussione sul testo di legge proposto dal (non a caso) renziano Matteo Richetti, dopo aver avuto il via libera dalla Commissione Affari costituzionali, è prevista a Montecitorio per l’11 luglio. Ma già si trama per affossare la riforma, a maggior ragione davanti al rischio della mancata rielezione.
La terza causa di tensione scaturisce dallo Statuto del Pd, che esclude la ricandidabilità di chi abbia già completato tre legislature. Renzi ha seriamente intenzione di far valere la regola per i vari Ugo Sposetti (5 legislature), Beppe Fioroni (5), Barbara Pollastrini e tanti altri ancora. Le deroghe saranno rarissime, per esempio per Paolo Gentiloni, Marco Minniti e Dario Franceschini. Proprio Franceschini (si veda anche Keyser Soze a pagina 48) ha però un problema ulteriore: tra i parlamentari a rischio esclusione (almeno una cinquantina) appartengono alla sua area.
A prescindere dallo statuto, e malgrado sia il vicesegretario di Renzi, pure Maurizio Martina ha seri problemi. La corrente che guida conta su una settantina di parlamentari ora dubbiosi sulla sua forza contrattuale davanti a Renzi. Per questo hanno aperto un varco verso Pierluigi Bersani, loro antico maestro, che ha ancora più appeal sulla cinquantina tra deputati e senatori che hanno sostenuto Andrea Orlando e Michele Emiliano nelle rispettive corse a segretario del Pd. Nelle intenzioni di Renzi, i due, ma anche Martina e Franceschini, raccoglieranno solo briciole di candidature. Ed ecco perché il Pd è il Partito depresso.