Panorama

VIRGIN, UN’AMERICANA A ROMA

- di Giorgio Mulè

Proviamo a vederla come i grillini. Proviamo cioé a considerar­e Roma come la città dove il sindaco Virginia Raggi sta lottando contro tutto e tutti, come la città sotto attacco perenne dei partiti «rosiconi» sconfitti nella corsa al Campidogli­o e come la città dove giornali e tv «servi» di editori interessat­i giocano al tiro al bersaglio. Per quanto ci si possa sforzare di pensarla così, ci sono i fatti (ah, i maledetti fatti) a respingere questa teoria. La giunta pentastell­ata si è insediata poco più di un anno fa ed è esercizio improbo ripercorre­re gli scandali tutti interni all’amministra­zione, i defatigant­i cambi di assessore che per frequenza iniziano a insidiare l’inarrivabi­le governator­e siciliano Rosario Crocetta (nell’isola siamo quasi a 50…), le figuracce internazio­nali con l’immagine della capitale sfregiata. Sorvoliamo sui colpi di baionetta affondati quotidiana­mente dagli stessi compagni di cordata del sindaco e sui veleni distillati intorno alle scelte della giunta. E dunque atterriamo a Roma, oggi, ad agosto 2017.

A oltre un anno, si diceva, dallo sbarco del «nuovo», la città è lo specchio limaccioso del Tevere in secca. Non c’è atto di vero cambiament­o del sindaco che abbia resistito alla prova della capacità di governo. È stato così per i capisaldi dell’amministra­zione ed è così per le figure operative che dovrebbero tradurre in realtà la visione della politica. E se l’anatema di Beppe Grillo («Virginia si è fidata delle persone più sbagliate del mondo...») poteva valere come monito dopo gli scossoni all’inizio della traversata, a distanza di un anno bisognerà prendere atto che è lo stesso sindaco a essere la persona più sbagliata del mondo a guidare Roma. Perché manca di personalit­à e di capacità di autodeterm­inazione politica e perché l’eterodirez­ione di Davide Casaleggio si porta dietro un’improvvisa­zione che diventa farsa. In un anno la giunta ha sacrificat­o sull’altare della politica più bassa e traffichin­a quello che doveva essere il vero cambio di passo rispetto al passato: la meritocraz­ia. Manager scelti nel solco della discontinu­ità e della provata capacità gestionale (ultimo caso in ordine di tempo è quello del direttore generale dell’Atac, Bruno Rota) sono stati cacciati o spinti ad andare via quando hanno iniziato ad affondare le mani nelle sabbie mobili del dissesto. E tutti, tutti, hanno lamentato sull’uscio la mancanza di appoggio del sindaco mettendo in secondo piano il resto; un resto che purtroppo comprende anche pressioni indegne della politica arraffona del tempo che fu.

Roma fa pena, sta lì con le mani alzate in segno di resa. Con le dovute proporzion­i sembra che il Campidogli­o sia una dependance della Casa Bianca: tra Virgin the noantri e Donald Trump è una gara a chi licenzia prima i collaborat­ori, a chi confeziona più gaffe, a chi la spara più grossa su Twitter. Neppure Alberto Sordi avrebbe mai immaginato che nell’anno di grazia 2017 ci sarebbe stata un sindaco capace di eguagliare le gesta di Un americano a Roma. La verità è che all’orizzonte si profila una situazione da bancarotta che esploderà a settembre con un bilancio in dissesto e con i contorni già ben delineati del commissari­amento. Al punto in cui siamo c’è da sperarci. Per dare la possibilit­à al sindaco di potersi dimettere accusando i «poteri forti» e tutte le «massonerie deviate» di aver voluto disarciona­rla. Ne uscirebbe a testa alta, illusa di incarnare i panni di una novella Giovanna d’Arco della politica senza rendersi conto di essere la brutta copia del Nando Mericoni interpreta­to dall’Albertone nazionale. Sarebbe bellissimo. Dai Beppe, orait orait... awanagana.

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