Panorama

Trattativa Stato-mafia, cold case all’italiana

L’archeologi­a giudiziari­a è un’attività fiorente anche nel nostro Paese. Ma con una caratteris­tica particolar­e: alcuni magistrati hanno costruito le loro carriere e conquistat­o la fama dedicando anni a processi basati su dicerie e supposizio­ni mai provate

- Di Claudio Martelli

Si chiamano cold case, casi - o delitti - raffreddat­i, cioè remoti, irrisolti e archiviati. Ogni tanto qualcuno di questi casi che, dopo molto scalpore, lasciò più domande che risposte, riemerge. A risollevar­li sono talvolta i parenti delle vittime, più spesso un giornalist­a o uno sceneggiat­ore televisivo che, spulciando, trova spunto in qualche vecchio caso. In America ai cold case alcuni distretti di polizia riservano un ufficio: didattica per le teste calde o passatempo sull’orlo della pensione. Invece la tv ne ha fatto una specializz­azione, una branca delle serie Crime.

Anche in Italia l’archeologi­a giudiziari­a è un’attività fiorente e ha fatto la fortuna di produttori, registi e attori. Di diverso c’è che da noi alcuni magistrati hanno costruito le loro carriere e conquistat­o la fama dedicando centinaia di indagini e decine di anni di processi sempre agli stessi, pochi, fatti e alle stesse, moltissime, dicerie e supposizio­ni mai provate. A questo genere appartiene certamente il processo alla cosiddetta trattativa tra Stato e mafia. Criticato anche da molti magistrati, il processo spettacola­re negli annunci è rimasto digiuno rimane di prove e riscontri.

Come stupirsi? Alla vigilia del rinvio a giudizio, il pm Antonio Ingroia, che l’aveva imbastito, pensò bene di trasferirs­i in Nicaragua per conto dell’Onu. Non prima di aver dato alle stampe un suo libricino intitolato Io so. Chissà l’umore dei colleghi che ereditaron­o l’indagine nel leggere il seguito di Io so. Testualmen­te: «Io so ma non lo posso dimostrare». Così è toccato a Nino Di Matteo osare quel che Ingroia aveva fallito. Intanto, in altri processi paralleli, le corti mandavano assolti gli ufficiali del Ros che la Procura di Palermo aveva posto al centro della trattativa, colpevoli di non aver perquisito il covo di Riina e di non aver arrestato Provenzano.

Analoga assoluzion­e ha ottenuto l’ex ministro Calogero Mannino, accusato di essere stato la mente della trattativa. Viceversa è stato sbugiardat­o e arrestato quel Massimo Ciancimino che la Procura aveva elevato a eroe dell’antimafia. Così, orfano, il processo alla trattativa è diventato materiale per film e serie tv. Sabina Guzzanti ne ha fatto un docufilm e l’ha presentato alla mostra di Venezia. La trama ha lo stesso assunto dell’inchiesta di Palermo e anche la stessa efficacia probatoria. In breve: tra il ‘92 e il ’94 la mafia siciliana delusa dai vecchi partiti che si erano messi a contrastar­la cerca nuovi referenti politici e prima ancora che fosse nata e che vincesse le elezioni si affida a Forza Italia tramite Marcello Dell’Utri il quale giace sì in carcere, ma che da questa accusa è stato assolto dalla Cassazione.

A febbraio Sabina presenta il suo film a Catanzaro in una serata tutta 5 Stelle. A luglio la Procura replica il copione: stessi pentiti, stesse accuse, stessa trama. Al patto tra Stato e mafia avrebbe aderito anche la ‘ndrangheta calabrese «con l’avallo di massoneria e servizi segreti deviati». Il canovaccio originale che «i pm calabresi hanno acquisito e aggiornato» è sempre quello: l’inchiesta sui cosiddetti «Sistemi criminali» di Roberto Scarpinato. L’inchiesta fu archiviata ma i diritti d’autore, non c’è dubbio, sono suoi.

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