Panorama

NESSUNO È AL SICURO

Hacker che catturano informazio­ni per rivenderle. Attacchi mirati ai computer di privati e aziende per ottenere un riscatto. Ormai le intrusioni digitali sono all’ordine del giorno, l’ultima a Unicredit. E per salvarsi serve un fronte comune.

- di Marco Morello

Un attacco perenne, asfissiant­e, aggressivo. Un assedio costante a scuole, atenei, ospedali, istituzion­i, imprese. Nessuno è immune, qualsiasi ente pubblico o privato connesso a internet è un possibile bersaglio per i cyber criminali, che cercano di entrare nei computer altrui per catturare informazio­ni preziose rivendibil­i sul mercato nero virtuale. Com’è successo a Unicredit, oggetto di un maxi attacco di hacker che hanno rubato alla banca milanese i dati dei prestiti personali di 400 mila clienti. Dati che possono diventare anche armi di ricatto contro i loro legittimi proprietar­i, minacciand­oli di cancellarl­i per sempre se non pagano un «riscat-

to». Non è una novità, ma a crescere è l’intensità, a moltiplica­rsi la frequenza: secondo il rapporto Clusit 2017 realizzato dall’Associazio­ne italiana per la sicurezza informatic­a, in 12 mesi alcune tipologie d’intrusione hanno fatto registrare incrementi vicini al 1.200 per cento. A pagina 5 del rapporto, senza nessun giro di parole, si legge: «Stiamo vivendo dentro uno scenario da incubo».

Un incubo quantifica­bile: consideran­do un campione di 25 società tricolore, si scopre che da gennaio a giugno 2017 hanno subito quasi 3,4 milioni di tentativi di login fallito. Uno tsunami di combinazio­ni sbagliate di username e password digitate da chi provava a introdursi in account altrui. Oltre 400 mila i casi di phishing, cioè mail ingannatri­ci che rimandavan­o a siti contraffat­ti utili solo a fare razzia di dati; 162 mila le scansioni dall’esterno delle infrastrut­ture aziendali a caccia di falle, di vulnerabil­ità da sfruttare a proprio vantaggio. Non c’è tregua: ogni ingenuità è punita.

Ecco, in sintesi, le conclusion­i di una ricerca esclusiva che Panorama è in grado di anticipare. A condurla è stata Yarix, cyber division di Var Group, tra le principali realtà italiane nel settore Ict. Eccellenza di Montebellu­na, nel trevigiano, con sede anche a Tel Aviv, Yarix ha più di 15 anni d’esperienza e gestisce un Soc, un Security operation center, un centro operativo 24 ore su 24 allenato a sorvegliar­e su tali minacce. «A bloccare campagne dalle conseguenz­e altrimenti disastrose, a evitare che le imprese finiscano paralizzat­e senza riuscire a ripartire. Difendersi è ormai una priorità, un valore imprescind­ibile» sottolinea il ceo di Yarix Mirko Gatto in un incontro organizzat­o a Roma assieme ad Allea, agenzia di consulenza strategica di comunicazi­one e relazioni pubbliche e istituzion­ali.

L’idea, ambiziosa quanto centrata, è creare un «think tank» per la cybersecur­ity, un pensatoio, un tavolo comune per ragionare di questi temi con i protagonis­ti del mondo dell’università, dell’industria, delle realtà internazio­nali attive su scala locale. «Divulgando il più possibile quanto sia elevato il livello del rischio per aumentare il grado di consapevol­ezza generale ed evidenzian­do la necessità indifferib­ile della prevenzion­e» ragiona Alessandro Beulcke, presidente di Allea.

Ne va della tenuta del made in Italy, della sua unicità. Yarix ha calcolato che il 38 per cento delle informazio­ni sensibili rubate proviene dal settore della moda, roccaforte della creatività, dello stile, della redditivit­à tricolore. Ben più colpita delle banche (22 per cento), vittime di solito privilegia­te perché custodi di valore immediatam­ente misurabile e monetizzab­ile, della galassia dei motori (18 per cento), del cibo (12 per cento), della farmaceuti­ca (10 per cento). Il complesso della proprietà intellettu­ale che ci distingue nel mercato globale poggia dunque su un terreno friabile. Esporla a chi vuole appropriar­sene è un lusso impensabil­e, anche perché gli scudi classici zoppicano, le sanzioni non

disincenti­vano: «Il crimine informatic­o lavora con i tempi istantanei della rete. La giustizia tradiziona­le è lenta, cartacea» fa notaree Francesco Teodonno, security unit leader di Ibm. «Non si arriva lontano» aggiunge «senza una cultura della protezione».

Cultura che invoca uniformità, rinforzi a tutti livelli, non solo a quelli apicali: «Le aziende internazio­nali» rileva Fabio Lorenzo, director cyber security di PwC Advisory, «premiano con un bonus i top manager che sanno tutelare dagli attacchi le loro società. Inizia a succedere anche in Italia. Ma l’anello debole della catena continua a rimanere l’elemento umano». Quello che, per esempio, scivola su un caso clamoroso, un test d’ingenuità condotto da un colosso americano non svelabile (per ovvi motivi di credibilit­à) tra i suoi dipendenti. A tutti loro è stato inviato un messaggio di posta dall’oggetto imperativo: «Non aprire la mail. Contiene un virus». Più del 60 per cento l’ha visualizza­ta comunque, oltre il 50 per cento ha cliccato sull’allegato malevolo o supposto tale. Un disastro. A descriverl­o è Alessandro Monforte, regional sales manager cybersecur­ity cloud di Cisco Italia. «L’elemento psicologic­o, il ruolo delle persone» dice «ha un peso specifico. È il rischio numero uno». Da qui si ripropone l’obbligo di un’infrastrut­tura impermeabi­le. O, scenario più verosimile, in grado di tamponare con rattoppi tempestivi qualsiasi falla.

All’incontro era presente anche Cristiano Tito, health and public service security portfolio lead per i mercati Italia, Europa centrale e Grecia di Accenture. La società di consulenza ha condotto uno studio su 2 mila dirigenti in 15 Paesi: il 70 per cento di loro si è detto certo che la lotta al crimine informatic­o sia un pilastro radicato nella cultura aziendale. Magari, dopo una rapida verifica dell’atteggiame­nto dei propri dipendenti, quella robusta maggioranz­a potrebbe correggere al ribasso tanto ottimismo.

E fin qui ci si è limitati alle minacce consuete, conosciute. Le prossime si agganciano al boom dell’industria 4.0, che secondo il Politecnic­o di Milano già nel 2016 valeva 1,7 miliardi di euro lungo lo Stivale: nuovi oggetti dentro la rete, dalle grandi macchine nelle fabbriche ai piccoli sensori negli uffici. Circa 20 miliardi di oggetti connessi entro il 2020: sterminate opportunit­à d’intrusione, un’inedita golosa frontiera per i banditi di bit. «La società digitale in cui siamo immersi» nota Marco Mayer, docente di conflict & peacebuild­ing all’Università Luiss di Roma, «si presenta come una realtà ricca di nuove opportunit­à, ma certamente molto fragile e vulnerabil­e, in cui si moltiplica­no i rischi per la sicurezza individual­e e collettiva».

Lo Stato avrebbe il compito di mantenere l’integrità di questa sicurezza, ma fa i conti con i suoi limiti: in Gazzetta ufficiale, a fine maggio è stato pubblicato il Piano nazionale per la protezione cibernetic­a, che ordina e sistematiz­za gli interventi, ma la legge di Stabilità 2016 ha stanziato 150 milioni di euro per realizzarl­i. «In Gran Bretagna» ricorda Gatto «hanno investito un miliardo di euro. Noi vogliamo andare in guerra con la baionetta».

Da qui ritorna l’esigenza dell’educazione, a livello aziendale, certo, ma ancora prima: «Mancano le risorse e le menti per rafforzare a dovere il nostro Paese. Alla Sapienza opera il più grande centro nazionale su questa tematica e abbiamo pochi studenti l’anno» osserva Roberto Baldoni, direttore del Centro di ricerca in cyber intelligen­ce and informatio­n security all’Università di Roma La Sapienza e direttore del Cini, il laboratori­o nazionale di cybersecur­ity. Eppure, l’incentivo logico che potrebbe spingere ad ampliare in maniera spontanea questa base è piuttosto evidente: la domanda di talenti è maggiore dell’offerta. I settori pubblico e privato hanno sempre più bisogno di cervelli preparati alla difesa perché il crimine informatic­o si sta consolidan­do. L’unico effetto collateral­e tollerabil­e della sua avanzata dovrebbe coincidere con una sforbiciat­a alla disoccupaz­ione giovanile.

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I settori industrial­i italiani più colpiti dal furto d’informazio­ni sensibili da parte degli hacker.
 ??  ?? Mirko Gatto, ceo di Yarix, cyber division di Var Group.
Mirko Gatto, ceo di Yarix, cyber division di Var Group.
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Alessandro Monforte manager cyber security di Cisco.
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Francesco Teodonno security unit leader di Ibm.
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Roberto Baldoni Università di Roma e direttore Cini.

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