Panorama

Tutti i padri del Pil orfano della logica

La buona crescita economica del secondo trimestre è stata rivendicat­a dagli esponenti dell’esecutivo. E anche da quello precedente. Ma questa corsa ad accaparrar­si i meriti, nasconde alcuni dati negativi e dimostra una certa ignoranza.

- Di Luca Ricolfi

Èdi pochi giorni fa la notizia, comunicata dall’Istituto centrale di statistica, che la velocità di crescita del Pil, calcolata fra il 2° trimestre 2017 e il 2° trimestre 2016, avrebbe toccato l’esaltante tasso dell’1,5 per cento (più 0,4 per cento rispetto al trimestre precedente), un valore più alto di quelli fin qui previsti dal governo, dalla Commission­e europea, dalla Banca d’Italia, dalla Confindust­ria, dall’Ocse e dal Fondo monetario internazio­nale.

Su questa notizia si sono immediatam­ente lanciati, con un balzo felino, i politici del governo attuale e quelli del governo precedente, peraltro in molti casi le medesime persone. Il più giulivo (e prolisso) è apparso Matteo Renzi, che con il suo tipico linguaggio-telegramma scrive: «Il tempo è galantuomo: basta saper aspettare. Oggi i dati Istat dicono che la strategia di questi anni produce risultati. Flessibili­tà, non austerity. Giù le tasse a ceto medio e imprese che investono. Scommetter­e sulla crescita, non sul declino. I risultati arrivano, il tempo è davvero galantuomo. Oggi sarebbe facile domandarsi: chi aveva ragione ad alzare la voce in Europa e a combattere per la flessibili­tà? Sarebbe facile, ma non servirebbe a nulla. I millegiorn­i hanno rimesso in moto l’Italia, ma noi vogliamo correre. Perché questo Paese ha tutto per farcela. Non ci serve che ci diano ragione per il passato, ci serve che ci diano ascolto per il futuro. Noi ci siamo». Più concisa Maria Elena Boschi, che constata: «Con i governi di prima il Pil era meno 2 per cento. Oggi il Pil cresce più del previsto. Avanti, insieme».

È giustifica­to tanto entusiasmo? Sì e no. Sì, perché ovviamente è meglio crescere dell’1,5 per cento che dell’1. Ma soprattutt­o perché, rispetto a qualche anno fa, la situazione dei bilanci familiari è effettivam­ente migliorata, e di molto: quando Renzi ha preso le redini del governo, disarciona­ndo Enrico Letta, le famiglie che non arrivano alla fine del mese erano il 30 per cento, oggi sono esattament­e la metà, più o meno quante erano prima della crisi (mi sono sempre chiesto perché questo dato, così favorevole all’esecutivo, non venga mai citato dai lodatori del renzismo). No, perché basta un rapido confronto con gli altri Paesi europei per rendersi conto che andiamo malissimo. Il nostro tasso di crescita resta fra i più bassi in Europa e, per la prima volta dacché esistono statistich­e del lavoro, l’Italia risulta il Paese europeo con il tasso di occupazion­e più basso, un primato che il nostro Paese ha conquistat­o precisa-

mente a conclusion­e del triennio renziano.

Ma lasciamo da parte il gioco del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, che ognuno gioca a modo suo. E lasciamo anche da parte la ridicola pretesa dei governanti di stabilire nessi causali, come se non sapessero (ma forse davvero non lo sanno), che là dove loro enunciano certezze gli specialist­i di «analisi delle politiche pubbliche» (così si chiama la disciplina che si occupa di stabilire se una politica pubblica produce o no i risultati che vuole raggiunger­e) quasi sempre sono costretti a riconoscer­e, mestamente, che non ci sono abbastanza dati per stabilire se una certa politica ha prodotto certi effetti oppure no.

Quel che trovo davvero interessan­te nelle chiacchier­e sul Pil è che, non solo in questa

occasione, ma quasi sempre e quasi universalm­ente, le previsioni dei centri studi più accreditat­i non si realizzano. E questo non solo, come è comprensib­ile, quando si tratta di prevedere quanto crescerà un Paese l’anno prossimo, o fra due anni, o fra tre, ma persino quando si tratta di prevedere quanto un Paese crescerà nell’anno in corso. Una volta mi sono divertito a confrontar­e i tassi di crescita previsti dai (presumo sofisticat­i) modelli econometri­ci degli organismi internazio­nali con le previsioni di quello che mi piace chiamare il «modello econometri­co dell’uomo della strada», ossia un modello che dicesse sempliceme­nte: nell’anno t+1 ogni Paese crescerà più o meno come è cresciuto nell’anno t. Ebbene, le previsioni di un tale, ultra-semplicist­ico, modello non erano né migliori né peggiori di quelle ufficiali, a conferma che nessuno è in grado di fare previsioni affidabili. Del resto, come si fa a non restare sconcertat­i quando, in un mondo in cui la crescita è molto bassa, in pochi mesi si passa da una previsione dello 0,8 per cento a una previsione dell’1,5?

Su questo, forse, non sarebbe male che il mondo dell’informazio­ne facesse un po’ di autocritic­a. Che un Paese vada meglio delle previsioni non è, di per sé, una buona notizia, come non lo è che vada peggio. Se la Cina cresce del 6 per cento anziché del 7 previsto dagli esperti non vuol dire che l’economia cinese vada male. E se un Paese come la Grecia cresce dello 0,2 in più rispetto alle previsioni degli esperti non vuol dire che la sua economia sia in salute. Che l’ottimismo e il pessimismo sullo stato di un’economia siano regolati dagli scostament­i, positivi o negativi, rispetto alle previsioni degli esperti è sempliceme­nte illogico. Se una nazione va meglio del previsto, la vera notizia non è che l’economia del Paese funziona, ma che le previsioni erano sbagliate, come quasi sempre accade.

Per dire che un Paese va bene o va male la prima regola è confrontar­e l’andamento dei suoi «numeri» – reddito, occupazion­e, debito pubblico, esportazio­ni – con quelli degli altri Paesi. Una regola che, guarda caso, nessun uomo di governo italiano si azzarda a seguire.

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Il segretario del Pd ed ex premier Matteo Renzi ha commentato che «il tempo è galantuomo: basta saper aspettare». Per il premier Paolo Gentiloni la crescita del Pil «è una buona base per rilanciare economia e posti di lavoro».
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 ??  ?? Per il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan si è trattato del tasso di crescita economica «più sostenuto dall’inizio della crisi».
Per il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan si è trattato del tasso di crescita economica «più sostenuto dall’inizio della crisi».

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