Voglia di selvaggio
Per trovare luoghi dove la solitudine è assoluta e la natura fa sentire avventurosi, non bisogna andare lontano. Ecco una mini guida (d’autore) all’Italia delle foreste incantate, delle coste non battute e cime senza nome dove contare su un’unica risorsa:
Chi non ha mai sognato di fuggire su un’isola deserta, verso un monte sconosciuto, una valle disabitata? È un antico sogno infantile che, prepotente, torna a rapirci nell’età adulta, risvegliando il Robinson che dorme in tutti noi. E non c’è bisogno di andare dall’altra parte del globo, la nostra piccola Amazzonia personale è qui, vicino a casa, basta guardarsi attorno. Il nostro Paese, così globalizzato e sovrappopolato, infrastrutturato e cementificato, nasconde inaspettati lembi selvaggi, anche se, come la faccia oscura della Luna, sono poco visibili, spesso celati da ostacoli fisici, barriere da superare. La montagna, in particolare quella appenninica, presenta veri picchi di spopolamento, la fuga verso l’urbanizzazione iniziata negli anni Cinquanta e non ancora finita ha fatto sì che alcune valli interne contino appena tre abitanti al chilometri quadrato. Dati da Siberia.
Detto questo, la wilderness nostrana è fatta di aree di limitata estensione. Con l’eccezione delle due aree disabitate più vaste del Paese: la Val Grande, in Piemonte, oggi Parco Nazionale, circa 300 chilometri quadrati di faggete, creste e gole di difficile penetrazione; e l’Orsomarso, profonda Calabria, provincia di Cosenza, una corona di cime attorno ai duemila metri circondate da un mare di foresta, per circa 400 chilometri quadrati. Gli altri sono fazzoletti di territorio, senza dubbio.
Ma poiché è lento l’avanzare di chi si fa largo nelle boscaglie, nelle forre, nei greti asciutti, tra le pietraie, i ritagli selvaggi si dilatano, quasi in uno spaziotempo parallelo. Così la Terra riacquista le sue reali dimensioni.
La velocità di chi cammina fuori sentiero scende, vertiginosa, a un chilometro l’ora. Poi ci sono le difficoltà da negoziare: frane, guadi, tratti rocciosi, creste… Per una traversata di cinque chilometri in linea d’aria in una zona impervia possono essere necessari più giorni. Abbandonare le vie battute, insomma, non è facile e un progetto di esplorazione resta spesso un sogno nel cassetto. Lasciare il consueto significa rinunciare alle comodità, scegliere la dura terra come letto al posto della brandina del rifugio. Quando va bene ci si trova in una minuscola tenda e se si è in giornata buona si trova un ricovero di fortuna come una capanna o una grotta. Rischiare umidità, freddo e caldo, fame e sete, è all’ordine del giorno. Oggi, rispetto al buon tempo passato in cui ho iniziato la mia singolare attività, ci sono ausili come materassini ultraleggeri, capi tecnici leggerissimi e caldissimi, Gps: ma non sperate che da soli vi portino a destinazione. È dentro di noi, quando il telefono finalmente tace per
mancanza di segnale, quando non si è certi della direzione, quando si cammina per un paio di giorni nella nebbia, che avviene la rivoluzione. È l’essere «disconnessi» dalla normalità, la vertigine di non essere contattabili, l’estasi di trovarsi, magari per qualche giorno, lontani dalla civiltà. E quindi, soli con se stessi: esperienza che il mondo moderno tenta in ogni modo di evitarci. Inutile negarlo: paure ancestrali affiorano nell’anima durante le lunghe notti dei bivacchi piovosi, per chi è da solo nella foresta. Notti in cui si fanno strada dubbi e antichi sensi di inadeguatezza, in cui la natura diventa una fata ostile, la meta una chimera irraggiungibile. Quindi è solo lavorando su sé stessi, e limitando le proprie necessità materiali, che si vince questa non tanto sottile guerra psicologica con se stessi.
L’Italia è un Paese ricco di opportunità per i cercatori di solitudine. Le Alpi celano tante valli senza strade, l’Appennino è la lunga spina dorsale della Penisola con angoli perduti dove camminare per giorni senza incontrare anima viva, e poi ci sono ancora piccole isole, tratti di costa selvatici, fiumi che scorrono liberi. Infine, ed è tutto un capitolo a parte, c’è il richiamo delle aree «periurbane» che qualche barriera ha consegnato all’inselvatichimento, in bilico tra archeologia industriale e rinaturalizzazione. È il campo della cosiddetta Urbex (Urban Exploration). In Italia un esempio di attualità è l’area della Goccia alla Bovisa, alle porte di Milano, vera foresta urbana cresciuta sulle rovine dei gasometri e degli stabilimenti AeM.
A un anno dall’uscita di Wilderness in Italia, a piedi nell’Italia del silenzio, il libro per Hoepli in cui riassumo 30 anni di pellegrinaggi nell’Italia marginale, quella dei 5 mila paesi fantasma, mi sono rimessa in cammino verso altri luoghi. Alcuni, quelli più accessibili sono nelle foto in queste pagine.
Intanto l’esplorazione prosegue. La geografia del silenzio è una mappa ancora da completare.