Panorama

UNA PROVOCAZIO­NE: SEPPELLITE QUELLE MACERIE

- di Giorgio Mulè

Èarrivato il momento di dire alcuni concetti chiari sul post terremoto dell’Italia centrale. Senza additare colpevoli, ma con molta serenità. Bisogna farlo adesso prima che un altro anniversar­io ci ricordi l’immensità di una tragedia che non può tollerare l’intermitte­nza della responsabi­lità e prima che ricominci l’epopea dei caschetti gialli indossati su vestiti da cerimonia tra la desolazion­e dei paesi cancellati. Mi servirò di alcune frasi pronunciat­e dal vescovo di Rieti, Domenico Pompili, nella sua omelia a un anno dal sisma.

La ricostruzi­one sarà vera o falsa. È falsa quando procediamo alla giornata, senza sapere dove andare. Mi chiedo: siamo forse in attesa che l’oblio scenda sulla nostra generazion­e per lasciare ai nostri figli il compito di cavarsela, magari altrove? Rinviare non paga mai. Neanche in politica, perché il tempo è una variabile decisiva. Questi dodici mesi sono lastricati di rinvii, di decisioni non prese, di tempo sprecato (anche questa settimana ne diamo conto in un ampio servizio da pag. 50). Atterriti dal fantasma della corruzione, a Roma è mancato il coraggio di delegare ai sindaci compiti che sono invece rimasti intrappola­ti in una foresta di burocrazia. Con risultati mortifican­ti e paradossal­i. Le macerie sono rimaste esattament­e dov’erano. E parliamo delle casette, ancora delle famose casette. Al 24 agosto su 3.649 ordinate ne sono state consegnate 743: poco più del 20 per cento. Una vergogna assoluta figlia dei dieci passaggi necessari prima di aprire un cantiere con una selva di enti che devono vagliare, cacadubbia­re, segnalare…e di tutti gli incagli conseguent­i. L’inverno è alle porte e il freddo non è una variabile ma una certezza: dal momento che questo disastro non è figlio di madre ignota ma delle ordinanze partorite dalla ben nota «burocrazia» (Protezione civile, Commissari­o straordina­rio, Regioni) è così arduo togliere l’acqua a questo mostro e individuar­e uno e un solo soggetto attuatore per ogni Comune?

La ricostruzi­one al contrario è vera quando evita frasi fatte - «Ricostruir­emo com’era, dov’era» – e chiarisce che ricostruir­e è possibile. Ma non l’identico, bensì l’autentico. L’identità di un borgo storico è sempre dinamica e la storia non torna mai indietro. Ricostruir­e vuol dire sempre andare avanti. Anche Amatrice rinascerà. Ma è bene che conservi perfino le ferite, perche da quelle le future generazion­i apprendera­nno che la città, più che dalle sue mura e dalle sue vie, è fatta dall’ingegno e dalla passione di chi la edifica.

Non importa se a pronunciar­e quella frase «fatta» sia stato un baldanzoso Matteo Renzi il 30 ottobre 2016. Davvero, non importa. Quel che è centrale è, come intima monsignor Pompili, rendersi conto che «la storia non torna mai indietro». Non si potranno ricostruir­e Amatrice, Accumoli, Arquata e decine di borghi com’erano e dov’erano. È impossibil­e. Lo capirono a Gibellina dopo il terremoto del 1968: il paese era stato annientato dalle scosse. Si dovette «re-inventarlo» a 20 chilometri di distanza. Alberto Burri, il grande artista umbro di Città di Castello, ebbe un’idea: compattare le macerie del vecchio paese siciliano, «armarle» con il cemento e fare un immenso cretto bianco di 8 mila metri quadrati. Un monumento gigantesco «così che resti ricordo di quest’avveniment­o», annotò. Conservare le ferite significa questo: avere il coraggio di non dimenticar­e ma di osare. E allora: perché non «seppellire» le macerie dei luoghi irrecupera­bili di Lazio, Umbria e Marche come sono e dove sono avviando con ingegno e passione la rinascita dei paesi a poca distanza?

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