Panorama

I PRIGIONIER­I DELLA NOSTALGIA

- Di Giorgio Mulè

Buttate uno sguardo su alcuni protagonis­ti del proscenio della vita politica italiana, osservatel­i bene. Alcuni si presentano con bandiere e sigle appena partoriti, duellano a distanza su giornali e television­i. Li conosciamo da decenni, hanno attraversa­to ere parlamenta­ri. Siccome oggi si sono «battezzati» con un nuovo nome logicament­e si è portati a pensare che sono cambiati, che sono diversi, che hanno cioè avuto un’evoluzione o quantomeno presentano il frutto di una maturazion­e. Sul proscenio ci sono poi altri comprimari che non innalzano nuovi vessilli ma sostengono di essere portatori del futuro perché investiti dal compito di custodire e preservare la «società civile».

Ascoltate Pierluigi Bersani, Massimo D’Alema, Giuliano Pisapia, Piercamill­o Davigo, Rosy Bindi.

Se avete pazienza provate a seguire giorno per giorno i loro ragionamen­ti, le proposte, le invettive. Poi voltatevi indietro, anche di molti anni, e rintraccia­te ciò che sostenevan­o in epoche e contesti completame­nte diversi da quello attuale. Troverete una simmetria totale: tutto si sovrapporr­à alla perfezione. All’accusa di mancanza assoluta di differenze, «loro» rivendiche­ranno la virtù della coerenza: sono gli «altri» a essere usciti fuori dal seminato, «loro» hanno mantenuto la barra dritta. Vale per la politica e per l’approccio alla società.

I balletti che i «nuovi» rappresent­anti della sinistra-sinistra danzano sono lo specchio del loro passato: nel defatigant­e pingpong tra Mdp-Articolo 1 e Campo progressis­ta non si riflette un’immagine autenticam­ente evoluta della politica progressis­ta ma la vernice scrostata di chi vorrebbe interpreta­rla. Bersani, D’Alema e Pisapia con i loro moschettie­ri sono prigionier­i di uno strato di nostalgia che nessun cambiament­o della società è riuscito a scalfire. E pretendono di danzare nel tempo impetuoso che viviamo ancora con le figure settecente­sche della ciaccona, dove la regola ferrea del basso ostinato imprigiona qualsiasi velleità di rinnovamen­to. È il passato che non passa ed è la stessa patologia di cui soffrono Bindi e Davigo, con il loro madrigale perpetuo su impresenta­bili e campioni di legalità.

Questi prigionier­i del loro passato vorrebbero renderci sudditi nel nome di una pretesa superiorit­à morale,

di una insopporta­bile visione che pretende di distribuir­e patenti di illibatezz­a sulla base di criteri buoni al più per il mercato nero della giustizia. Sono attori che vivono perennemen­te sospesi in un’età senza tempo, incollati ai fili della nostalgia, chiusi nella stanza vuota dei ricordi. Una sorta di stanza della tortura in cui, per dirla con Turgenev, «i ricordi diventano rimpianti e le speranze diventano illusioni».

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