I PRIGIONIERI DELLA NOSTALGIA
Buttate uno sguardo su alcuni protagonisti del proscenio della vita politica italiana, osservateli bene. Alcuni si presentano con bandiere e sigle appena partoriti, duellano a distanza su giornali e televisioni. Li conosciamo da decenni, hanno attraversato ere parlamentari. Siccome oggi si sono «battezzati» con un nuovo nome logicamente si è portati a pensare che sono cambiati, che sono diversi, che hanno cioè avuto un’evoluzione o quantomeno presentano il frutto di una maturazione. Sul proscenio ci sono poi altri comprimari che non innalzano nuovi vessilli ma sostengono di essere portatori del futuro perché investiti dal compito di custodire e preservare la «società civile».
Ascoltate Pierluigi Bersani, Massimo D’Alema, Giuliano Pisapia, Piercamillo Davigo, Rosy Bindi.
Se avete pazienza provate a seguire giorno per giorno i loro ragionamenti, le proposte, le invettive. Poi voltatevi indietro, anche di molti anni, e rintracciate ciò che sostenevano in epoche e contesti completamente diversi da quello attuale. Troverete una simmetria totale: tutto si sovrapporrà alla perfezione. All’accusa di mancanza assoluta di differenze, «loro» rivendicheranno la virtù della coerenza: sono gli «altri» a essere usciti fuori dal seminato, «loro» hanno mantenuto la barra dritta. Vale per la politica e per l’approccio alla società.
I balletti che i «nuovi» rappresentanti della sinistra-sinistra danzano sono lo specchio del loro passato: nel defatigante pingpong tra Mdp-Articolo 1 e Campo progressista non si riflette un’immagine autenticamente evoluta della politica progressista ma la vernice scrostata di chi vorrebbe interpretarla. Bersani, D’Alema e Pisapia con i loro moschettieri sono prigionieri di uno strato di nostalgia che nessun cambiamento della società è riuscito a scalfire. E pretendono di danzare nel tempo impetuoso che viviamo ancora con le figure settecentesche della ciaccona, dove la regola ferrea del basso ostinato imprigiona qualsiasi velleità di rinnovamento. È il passato che non passa ed è la stessa patologia di cui soffrono Bindi e Davigo, con il loro madrigale perpetuo su impresentabili e campioni di legalità.
Questi prigionieri del loro passato vorrebbero renderci sudditi nel nome di una pretesa superiorità morale,
di una insopportabile visione che pretende di distribuire patenti di illibatezza sulla base di criteri buoni al più per il mercato nero della giustizia. Sono attori che vivono perennemente sospesi in un’età senza tempo, incollati ai fili della nostalgia, chiusi nella stanza vuota dei ricordi. Una sorta di stanza della tortura in cui, per dirla con Turgenev, «i ricordi diventano rimpianti e le speranze diventano illusioni».