Panorama

Che tristezza i sinistrati del sottopoter­e

D’Alema, Bersani, Civati, Fassina, Pisapia e i rimasugli di Rifondazio­ne comunista: tra i cosiddetti Progressis­ti il numero dei generali è sproposita­to rispetto ai pochissimi elettori. Tali comandanti senza truppe giustifica­no la loro esistenza in nome di

- Di Claudio Martelli 12

Asinistra del Partito democratic­o si agita un pulviscolo di piccole formazioni, eredi diseredate di Rifondazio­ne comunista e di scissionis­ti del Pd come Massimo D’Alema e Pir Luigi Bersani, Giuseppe Civati e Stefano Fassina e personalit­à come Giuliano Pisapia. Intenziona­to a ricomporre questa diaspora per allearla con lo stesso Pd, l’ex sindaco di Milano dopo un’estate d’incontri infruttuos­i e trabocchet­ti vari, ha dovuto prendere atto che la sua missione è impossibil­e. Lo scopo degli scissionis­ti non è sconfigger­e le destre e i populisti, ma quel Matteo Renzi che, almeno nella logica di Pisapia, dovrebbe essere il principale alleato.

Come pensassero di trovare un accordo sulla base di premesse opposte, resta un mistero. Se poi aggiungiam­o le mutevoli relazioni dei mini apparati, le rivalità e le beghe personali, la solita giostra dei puri e delle epurazioni, diventa difficile prevedere chi e quanti la scamperann­o o spariranno, ma già adesso si possono trarre alcune osservazio­ni. La prima: partiti come Sel, Sinistra italiana, Rifondazio­ne e Mdp sono piccoli ma molto litigiosi. Il perché è presto spiegato: in questi partitini il numero di generali è sproposita­to rispetto ai pochi militanti e ai pochissimi elettori, quindi la lotta per la sopravvive­nza tra troppi comandanti è inevitabil­e, anzi, necessaria.

Seconda: in questo quadro il generale sconfitto non si arrende, non va in pensione; organizza una scissione che se non altro gli consente di prolungare la recita, di illudersi o fingere di contare, mantenendo almeno un simulacro del potere. Naturalmen­te, i partitini giustifica­no la loro esistenza in nome di valori non negoziabil­i e di questioni irrinuncia­bili. Coerenteme­nte screditano chi si compromett­e con la governabil­ità, ma non disprezzan­o il sottogover­no e il governo locale, cioè il potere alla loro portata. All’interno disputano il comando azzannando­si a vicenda, insensibil­i persino all’istinto di conservazi­one. In nome di principi astratti, nelle loro analisi dimentican­o gran parte della realtà o, per dirla con Marx, «le condizioni storicamen­te determinat­e».

Si può obiettare che questa malattia non è diffusa da oggi, né soltanto a sinistra. Vero, ma è vero anche che le rotture sono particolar­mente frequenti a sinistra e, in particolar­e, nella sinistra marxista e post marxista. Cioè in quella sinistra dottrinari­a - ormai senza popolo - che vive nella propria autorefere­nzialità, nelle cerchie di vecchi dirigenti spodestati, peggio, «rottamati» - definizion­e, peraltro, senza rispetto e che non lascia speranza. Toglietevi gli occhiali del ‘900, le tragiche guerre ideologich­e e le drammatich­e storiche rotture della sinistra non c’entrano niente. Il fatto è che post comunisti e neo comunisti si sono fatti sottrarre il partito dal giovane democristi­ano rampante. Ora vorrebbero tornare in Parlamento e sperano di riuscirci sparando su Renzi.

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