Che tristezza i sinistrati del sottopotere
D’Alema, Bersani, Civati, Fassina, Pisapia e i rimasugli di Rifondazione comunista: tra i cosiddetti Progressisti il numero dei generali è spropositato rispetto ai pochissimi elettori. Tali comandanti senza truppe giustificano la loro esistenza in nome di
Asinistra del Partito democratico si agita un pulviscolo di piccole formazioni, eredi diseredate di Rifondazione comunista e di scissionisti del Pd come Massimo D’Alema e Pir Luigi Bersani, Giuseppe Civati e Stefano Fassina e personalità come Giuliano Pisapia. Intenzionato a ricomporre questa diaspora per allearla con lo stesso Pd, l’ex sindaco di Milano dopo un’estate d’incontri infruttuosi e trabocchetti vari, ha dovuto prendere atto che la sua missione è impossibile. Lo scopo degli scissionisti non è sconfiggere le destre e i populisti, ma quel Matteo Renzi che, almeno nella logica di Pisapia, dovrebbe essere il principale alleato.
Come pensassero di trovare un accordo sulla base di premesse opposte, resta un mistero. Se poi aggiungiamo le mutevoli relazioni dei mini apparati, le rivalità e le beghe personali, la solita giostra dei puri e delle epurazioni, diventa difficile prevedere chi e quanti la scamperanno o spariranno, ma già adesso si possono trarre alcune osservazioni. La prima: partiti come Sel, Sinistra italiana, Rifondazione e Mdp sono piccoli ma molto litigiosi. Il perché è presto spiegato: in questi partitini il numero di generali è spropositato rispetto ai pochi militanti e ai pochissimi elettori, quindi la lotta per la sopravvivenza tra troppi comandanti è inevitabile, anzi, necessaria.
Seconda: in questo quadro il generale sconfitto non si arrende, non va in pensione; organizza una scissione che se non altro gli consente di prolungare la recita, di illudersi o fingere di contare, mantenendo almeno un simulacro del potere. Naturalmente, i partitini giustificano la loro esistenza in nome di valori non negoziabili e di questioni irrinunciabili. Coerentemente screditano chi si compromette con la governabilità, ma non disprezzano il sottogoverno e il governo locale, cioè il potere alla loro portata. All’interno disputano il comando azzannandosi a vicenda, insensibili persino all’istinto di conservazione. In nome di principi astratti, nelle loro analisi dimenticano gran parte della realtà o, per dirla con Marx, «le condizioni storicamente determinate».
Si può obiettare che questa malattia non è diffusa da oggi, né soltanto a sinistra. Vero, ma è vero anche che le rotture sono particolarmente frequenti a sinistra e, in particolare, nella sinistra marxista e post marxista. Cioè in quella sinistra dottrinaria - ormai senza popolo - che vive nella propria autoreferenzialità, nelle cerchie di vecchi dirigenti spodestati, peggio, «rottamati» - definizione, peraltro, senza rispetto e che non lascia speranza. Toglietevi gli occhiali del ‘900, le tragiche guerre ideologiche e le drammatiche storiche rotture della sinistra non c’entrano niente. Il fatto è che post comunisti e neo comunisti si sono fatti sottrarre il partito dal giovane democristiano rampante. Ora vorrebbero tornare in Parlamento e sperano di riuscirci sparando su Renzi.