Le sabbie mobili di Ilva e Alitalia
Mentre scoppia la rivolta su occupazione e salari nel gruppo siderurgico, arriva a scadenza l’asta per la compagnia aerea. E si profila un’altra emergenza-lavoro.
Una vera e propria emergenza occupazione si abbatte sul governo e sui partiti pronti a rullare i loro tamburi elettorali. In piazza sono già scesi gli operai dell’Ilva. Il colosso siderurgico Arcelor-Mittal che ha preso in affitto con obbligo di acquisto, insieme al gruppo Marcegaglia, le acciaierie di Taranto e Genova Cornigliano, su richiesta del ministro dello Sviluppo Carlo Calenda ha aumentato le assunzioni da 8.480 a 10.000 (gli esuberi quindi sarebbero «solo» 4 mila). Ma poiché i suoi conti devono tornare, vuole contestualmente abbassare i salari, che dopo la riassunzione con le regole del Jobs act sarebbero più «leggeri» di 6-7 mila euro lordi all’anno. Cgil, Cisl e Uil hanno proclamato sciopero e chiedono che vengano garantiti anche i salari e i contratti precedenti, mettendo in discussione lo stesso Jobs act. Calenda, ha dichiarato «irricevibili» le proposte aziendali e ha fatto saltare il tavolo della trattativa, calando un’ombra sull’intero accordo siglato a giugno per salvare una delle aziende che costituiscono la spina dorsale dell’industria italiana. A pochi mesi dalle elezioni, non ci voleva.
Intanto, si prepara all’orizzonte una seconda tempesta altrettanto carica di potenziale politico. Il 16 ottobre si aprono le buste delle offerte per l’Alitalia. Sono rimaste in pole position la Lufthansa, Easyjet probabilmente con un altro socio, una cordata formata da fondi di private equity magari con il contributo di alcuni partner interni (manager, comandanti, piloti). Mentre resta in stand-by la posizione di Etihad che possiede ancora il 49 per cento della compagnia. Ci sarà poi tempo fino al 3 novembre per migliorare le proposte, sempre che non arrivi una proroga, a questo punto piuttosto probabile.
Non è chiaro se le offerte riguarderanno l’intera Alitalia, come sperano i commissari e il governo,
oppure se verranno separati i servizi di terra dal trasporto aereo. Comunque andrà e chiunque riuscirà a prevalere, due cose sembrano certe: il perimetro dell’azienda non sarà lo stesso (ciò significa tagli alle retribuzioni e al personale). Oggi l’Alitalia ha 11 mila dipendenti e gli analisti stimano che potrebbero uscirne 3-4 mila. Una ristrutturazione, insomma, che ha una portata simile a quella annunciata dalla nuova Ilva.
Paolo Gentiloni, rivelatosi abile nocchiero in acque turbolente, potrà reggere a queste bufere gonfiate dall’avvicinarsi delle urne? Lo stop di Calenda sull’Ilva, in stile protezionismo alla francese, non ha placato le opposizioni di sinistra e di destra pronte a cavalcare fino in fondo la protesta. All’Alitalia, il 24 aprile scorso un referendum dei dipendenti aveva avuto appoggi politici trasversali in funzione anti-governativa (si era distinto allora il Movimento 5 stelle) e aveva bocciato un accordo per il salvatag-
gio che prevedeva sacrifici molto inferiori - il piano industriale di Etihad indicava circa 1.000 esuberi e riduzione degli stipendi - aprendo così la strada all’amministrazione controllata. Il rischio immediato è che Ilva e Alitalia vengano congelate e restino sul groppone dei contribuenti. È con denaro pubblico, infatti, che stanno in piedi le due aziende, fino alle elezioni. Poi, chi vincerà vedrà.
Ma quante crisi aziendali si nascondono sotto il tappeto e oscurano le statistiche positive su crescita e occupazione che l’Istat non smette di sfornare?