Panorama

Tempi lunghi per l’estradizio­ne di Battisti

Dalle visite a Mosca agli incontri con i sauditi, dal faccia a faccia con il presidente egiziano al Sisi ai rapporti indiretti con il Bahrein, il primo ministro israeliano si destreggia nel nuovo Medio Oriente rafforzand­o l’asse con i regimi sunniti. Il s

- Di Cosimo Risi già ambasciato­re, docente di Relazioni internazio­nali all’Università della Svizzera italiana

Benjamin Netanyahu ha maturato l’arte del guardarsi attorno per volgere le occasioni di crisi a favore d’Israele. E ciò senza che lo Stato si debba impegnare in conflitti tranne, probabilme­nte, quello a bassa intensità con Hezbollah in Libano. In Medio Oriente, la Russia prova a rinverdire i fasti della vecchia alleanza fra l’Urss e il nazionalis­mo panarabo del partito Baath (denunciata nel 1974 dal presidente egiziano Anwar al Sadat, quando si schierò con Washington). In Siria, invece, prima Hafez al Assad e poi il figlio Bashar al Assad si sono valsi della presenza russa per tener in piedi il regime alauita.

Nel 2015 la Russia ha dislocato nella base siriana di Khmeimim le forze d’attacco ai ribelli contrari ad Assad, in funzione anti-Isis. Netanyahu s’è subito recato a Mosca per il primo di una serie di colloqui (cinque in due anni) con Vladimir Putin, a cui ha chiesto di bloccare la concession­e all’Iran di basi in Siria e l’apertura del «corridoio sciita» dall’Iran al Libano. In subordine, il premier ha auspicato una fascia protettiva di 60 km dal confine, dove siano interdette le attività contro lo Stato ebraico. Nell’immediato, ha attivato con Mosca una sorta di telefono rosso con cui i rispettivi stati maggiori si coordinano per evitare incidenti sul terreno. E la Israeli Air Force interviene in Siria contro obiettivi militari senza che scatti la reazione siriana o russa.

L’asse sciita a guida iraniana si è consolidat­o grazie alle intese di Astana, sponsorizz­ate dalla Russia. All’asse si è associata la Turchia, che guarda a Mosca con qualche interesse. Come risposta, Israele ha contrappos­to la convergenz­a con l’asse sunnita. La politica di buon vicinato con l’Arabia Saudita si è consolidat­a per la comune avversione verso l’Iran. Sentimento cresciuto in misura inver- samente proporzion­ale alla normalizza­zione dei rapporti fra Washington e Teheran dopo l’accordo sul nucleare e la fine delle sanzioni.

La polemica di Donald Trump verso l’Iran conforta sunniti e israeliani, che consideran­o l’Iran una teocrazia volta all’egemonia regionale. Tanto che a settembre il principe ereditario del Regno saudita Mohammad bin Salman (nonché ministro della Difesa) si è recato in Israele. E il principe ereditario del Bahrein Nasser bin Hamad al Khalifa ha visitato il Centro Simon Wiesenthal di Los Angeles, esprimendo cordoglio per la Shoah. Il Bahrein, Paese a maggioranz­a sciita retto da una famiglia reale sunnita, fiancheggi­a Riyad nella disputa con il Qatar per la sua vicinanza all’Iran. Sempre a settembre, Netanyahu ha incontrato per la prima volta a New York il presidente egiziano Abd al Fattah al Sisi. I due hanno deciso di rispedire i rispettivi ambasciato­ri nelle sedi da cui li avevano richiamati mesi addietro.

Intanto, Hamas e al Fatah hanno riaperto il dialogo per restituire la Striscia al controllo dell’Autorità palestines­e, il cui premier Rami Hamdallah ha convocato la riunione di gabinetto a Gaza, dove è stato accolto dai dirigenti di Hamas, per la prima volta da tre anni. Può essere il primo passo della riconcilia­zione che, se Gaza fosse ricondotta alla logica del compromess­o, alla lunga favorirebb­e Israele. Mentre incamera la decisione dell’Interpol di ammettere la Palestina come membro, Mahmud Abbas non pare escludere soluzioni diverse da quella di due popoli-due Stati, Netanyahu si inserisce nella dinamica diplomatic­a per ottenere risultati senza concedere granché alle contropart­i. Perché, in definitiva, può contare sul fatto che Donald Trump non è Barack Obama.

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