In carrozza!
È un itinerario tra la memoria e il futuro quello che Enrico Menduni offre nel libro Andare per treni e stazioni. Ci sono le istantanee nostalgiche come il venditore di cestini sul binario. Ci sono i designer che hanno dato forme immortali all’immaginario
Non traditeci. Per chi come noi ama ancora i treni, ma soprattutto l’idea del treno, non resta che confidare nella saggezza delle Ferrovie italiane. Le cronache spietate ci hanno infatti rivelato che in Svezia, lì dove l’economia è avanzata e sostenibile, nel prossimo futuro sarà possibile salire sul treno senza esibire biglietto. A sostituirlo sarà un microchip inserito sotto la pelle dei passeggeri. Basterà poggiare pollice e indice su una barra magnetica e addio.
Addio bigliettai, diavoli in cappello sempre pronti a promettere paradisi perduti e riposi notturni. Addio al biglietto di carta, fortuna dei lettori che sempre lo hanno utilizzato per segnalare una pagina e trattenere un ricordo. E addio anche al verbo «obliterare» e dunque al suono perfetto di quella macchinetta che con denti affilatissimi ha azzannato partenze e promesso arrivi (e naturalmente anche ritardi). Ma come si fa? Leggete Andare per treni e
stazioni di Enrico Menduni (Il Mulino). Se potete, fatelo su una carrozza (ascoltate la parola: car-roz-za). Scoprireste che i nomi dei primi treni italiani sono tutti un carnevale di giochi (Arlecchino, Settebello…) e che gli arredamenti interni dei primi vagoni furono progettati da un architetto il cui nome è una promessa: Gio Ponti. E
ancora. Vi ricordate quando Totò rimpiccioliva quello sbruffone dell’onorevole Cosimo Trombetta: «Onorevole? Ma mi faccia il piacere!». Solo in treno poteva accadere.
Se è vero che con un treno si può cambiare vita (pensate al Mattia Pascal di Luigi Pirandello che su un treno decide di mutare nome e moglie), in Italia di sicuro, la storia, i treni l’hanno fatta. Si deve più ai treni che ai Mille la nostra Unità e non c’è stazione dove non si sia combattuta la battaglia di liberazione dall’isolamento, la guerra d’indipendenza dall’arretratezza.
Fu in treno che gli squadristi giunsero a Roma così come fu in una stazione, Bologna, dove l’orologio si fermò. Era il 2 agosto del 1980 e le ore erano le 10,25. A proposito di ore. Con gli orari ferroviari si potrebbero riscrivere biografie e altre se ne possono spiegare partendo da una stazione. Non è romanticismo?
Passeggiate per stazioni e vi accorgerete che oggi, più degli aeroporti, sono queste le scatole degli azzardi architettonici, i corridoi dell’impossibile. A Reggio Emilia c’è la stazione di Santiago Calatrava che si apre come una fisarmonica. Quella di Arata Isozaki, a Bologna, è quasi punk come lo furono i movimenti della contestazione. A Napoli Afragola, la nuova, che ingoia i treni ad alta velocità, assomiglia a un serpente che scappa nello spazio: è nomade come lo fu l’architetta irachena Zaha Hadid che
l’ha disegnata. E poi certo c’è quella di Firenze che rimane un capolavoro del razionalismo... No, no. Per quanto la tecnica possa avanzare, nessun dispositivo potrà mai sostituire quel treno che per il filosofo Walter Benjamin ( Legge
re romanzi polizieschi in treno ed. Henry Beyle) è «signore delle ninne nanne».
Soltanto durante un viaggio in treno l’uomo può essere tanto assorbito dal pensiero e rimanere in movimento. Non si tratta solo di binari. La ferrovia è poesia, è un canzoniere di meccanica. Che aspettate. Sta partendo. Salite!