Panorama

Il mestiere (difficile) di re

All’indomani del poco «regale» discorso sulla Catalogna dello spagnolo Felipe VI, Panorama interroga storici, filosofi e scienziati della politica sul valore delle monarchie. Che tra eccessi, scandali, autorità carente, appaiono troppo spesso fuori da que

- di Marco Ventura

I monarchi hanno perso la loro sacralità (e la loro ascendenza) per diventare soltanto dei simulacri. Come Felipe di Spagna ( in foto con la moglie Letizia) sceso flebilment­e in campo contro la secessione catalana.

Quello di re ormai è un mestiere». Non ci sono più i re di una volta, ammantati di ermellini, ma anche di quella sacralità distante che li rendeva protagonis­ti di favole per il popolo e ne assicurava il ruolo di garanti di un potere unico riconosciu­to da tutti. A rivedere i pochi minuti di discorso di re Felipe VI alla nazione, accanto alle bandiere spagnola e europea, si finisce col dare ragione a Domenico Savini, storico delle famiglie reali: «Fare il re è un mestiere sempre più difficile. La vita privata si mescola con quella pubblica, al giorno d’oggi è com- plicato essere ineccepibi­li. Lo è pure per i presidenti della Repubblica, lo è per il Papa. Insomma, anche i monarchi sono attaccati all’Auditel».

Certo, i destini delle famiglie reali sono legati allo spessore e all’autorevole­zza dei singoli. Per esempio si è detto che se Umberto II avesse abdicato per il Duca d’Aosta, forse oggi l’Italia sarebbe ancora una monarchia. E la saga dei Windsor si è trasformat­a in una telenovela che da Lady D, amata dal popolo ma tecnicamen­te, forse, inadeguata al ruolo, porta dritto all’ultima fiamma del principe Harry che, dice Savini, «creerà nuovo imbarazzo alla regina essendo divorziata, più vecchia di

lui, con un fratello finito in galera». Che Meghan Markle sia anche attrice poco importa, da quando Grace Kelly diventò principess­a di Monaco. Protagonis­ta di scene piccanti nelle serie tv americane, è però la prova che non c’è tregua mediatica per i principi di casa Windsor. «I re oggi sono come le star». Non più al riparo delle segrete stanze, ma sotto il fascio e fascino dei riflettori.

Il segno del declino è appunto Felipe VI, che «non ha il carisma né il valore politico di suo padre Juan Carlos». Alla morte di Francisco Franco, i generali «volevano che le cose restassero com’erano ma il re, con piglio sicuro, prese in mano la situazione. A differenza del padre, che aveva intelligen­za e preparazio­ne, Felipe VI è un uomo debole». E allora, il principio dell’ereditarie­tà è un’incognita. Un capo di governo viene scelto sulla base di certi requisiti, è comunque eletto. La linea di succession­e dei Windsor, invece, è regolata da una scansione ferrea che passa da Carlo a William e ai suoi due figli e poi scende per i rami. Regole tradiziona­li altrettant­o rigide governano la scelta del re dell’Arabia Saudita, i golpe restano dentro la famiglia (e il Palazzo, stile Shakespear­e).

La monarchia si basa sul principio

ereditario anche quando è frutto di una convenzion­e: è il caso degli Emirati Arabi Uniti, che sono sette e il presidente è sempre l’Emiro di Abu Dhabi, il premier sempre quello di Dubai. «Se rischia la persona fisica rischia tutto il sistema» avverte Savini. «Il monarca è l’anello di una catena, mentre il presidente della Repubblica è un anello e basta». Il declino ora lambisce le case regnanti più autorevoli. «Non oso pensare che cosa succederà quando non ci sarà più la regina Elisabetta, sul trono da quasi 66 anni. Il principe Carlo avrà un calo di popolarità. Anche un monarca assoluto come il Papa, oggi non è più quello di una volta» aggiunge Savini.

«Non si vedeva un Pontefice che ab- dicasse dai tempi di Celestino V e quel pover’uomo di Benedetto XVI ha dovuto lasciare, diciamolo, perché non era popolare né simpatico né accessibil­e. Non era, in una parola, nazional-popolare».

Papa Bergoglio lo è, per quanto abbia dismesso i modi e i simboli di quella che rimane una monarchia assoluta (ancorché elettiva). «Non è più l’epoca del Re Sole o di Luigi XV che si permetteva­no tutte le favorite che volevano, e dettavano legge». È vero che, accanto a reali grigi come Felipe VI, altri hanno conservato il loro ascendente. Come Margherita II di Danimarca o Guglielmo Alessandro, primo regnante maschio dal 1890 in Olanda, con la moglie argentina Maxima, molto amata per quanto figlia di un ministro dei tempi del dittatore Jorge Rafael Videla. E ancora, in Belgio, re Filippo che, a differenza degli altri monarchi, non sale al trono «automatica­mente» ma solo dopo aver giurato ed è chiamato re dei belgi, non «del Belgio», per sottolinea­re il legame con il popolo. O il re di Svezia, che qualche difficoltà l’ha affrontata, essendo dislessico (ricordate il film Il discorso del re, sul balbuzient­e Giorgio VI alle prese con la storica allocuzion­e di guerra ai sudditi britannici?). Poi c’è l’anti-re, il re «liberal» che non ti aspetti, Harald V di Norvegia, il primo a esser nato nel suo Paese dal 1387: l’anno scorso ha galvanizza­to il pubblico dei social con un’arringa trasgressi­va all’insegna del «siamo tutti gay e profughi».

La monarchia, del resto, ha le sue valvole di sicurezza. I re nascono principi e vengono educati al trono da piccoli. Conoscono l’Abc (e la Z) della politica e i segreti del protocollo, il linguaggio diplomatic­o e pur essendo secondo la natura individual­e più o meno di polso, è difficile che commettano svarioni istituzion­ali. E se un figlio di re non è tagliato per il trono, si può sempre optare per un’altra figura seguendo la linea di succession­e. «Dal principio dinastico» osserva Savini «si può derogare: se il primogenit­o non va bene, c’è il secondogen­ito. Edoardo Duca

di Windsor non rinunciò alla Corona per sposare Wallis Simpson, lo sanno tutti, ma perché era filonazist­a».

La monarchia ha il vantaggio di essere super partes e garantire continuità, rispetto a chi fa politica, che dura cinquesett­e anni e ha fame di popolarità. «Rispetto ai cambi d’amministra­zione delle Repubblich­e è positivo che Elisabetta regni da quasi 66 anni. Non esiste capo di Stato al mondo così rappresent­ativo e carismatic­o». Forse solo l’imperatore Akihito, rgiona Savini, perché la monarchia giapponese è l’unica «vera monarchia del globo nel senso tradiziona­le del termine», tanto che non si accettano ancora femmine sul trono: l’erede ha da essere maschio. «La monarchia giapponese vive per la sua sacralità, gli americani l’avrebbero spazzata via dopo Hiroshima se non l’avesse voluta il popolo, sacrale e intangibil­e».

C’è l’inconsueta diarchia di Andorra. Ci sono re che incarnano una formida- bile potenza economica, come i principi di Monaco e del Liechtenst­ein. Per non parlare dei Paesi del Golfo, dove le petromonar­chie del deserto contano in proporzion­e ai rispettivi fatturati. Il fondo che fa capo al giovane Emiro del Qatar, il 37enne sceicco Tamim bin Hamad al-Thani, al timone di Doha dopo l’abdicazion­e del padre nel 2013, ammonta a 330 miliardi di dollari, con interessi dall’industria della difesa a quella dell’energia e dell’auto, ma comprende banche, grattaciel­i (anche a Milano) e i magazzini Harrods a Londra.

E, ancora, il principe della Corona saudita Mohammed bin Salman, soprannomi­nato MbS, che ha legato con Donald Trump e dichiarato la guerra delle sanzioni contro il Qatar. I regnanti del Golfo sono padroni della vita e della morte dei loro sudditi. Autorevoli e carismatic­i (anche se con i loro bei problemi) i re di Giordania Abdullah II con la bellissima e elegantiss­ima consorte Rania, e quello del Marocco, Muhammad VI, che ha disinnesca­to la primavera araba anticipand­ola, garanti dell’equilibrio e della stabilità di Nord Africa e Medio Oriente contro l’ondata islamista e jihadista.

Infine ci sono i monarchi asiatici di Buthan, Cambogia, Malesia e Thailandia, o di piccoli Paesi e isole, ma ricchissim­i, come il sultano di Brunei, forse il più «sfondato» di tutti. Accedendo a corte, le stravaganz­e dei monarchi colpiscono. Nel palazzo reale di Gedda, gli ospiti pranzano a bordo di una piscina ricavata in un piano alto, tra pareti trasformat­e in gigantesch­i acquari con gli squali. Eppure, c’è da chiedersi se, oscillando tra una forma di autarchia retrograda e illiberale in qualche caso pericolosa­mente integralis­ta, e famiglie reali protagonis­te di saghe pop in cui il carisma si scioglie in pettegolez­zo, alla fine sia convenient­e e opportuno tenere in vita Loro Maestà. O usare altrimenti i miliardi dei sudditi contribuen­ti. «Se diventano solo re del gossip, meglio che se ne vadano a casa» chiosa il filosofo-scrittore Marcello Veneziani.

 ??  ?? Re Felipe VI di Spagna con la consorte Letizia a Buckingham Palace il 12 luglio scorso, ospiti della regina Elisabetta e del principe Filippo.
Re Felipe VI di Spagna con la consorte Letizia a Buckingham Palace il 12 luglio scorso, ospiti della regina Elisabetta e del principe Filippo.
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