Panorama

La laurea in valigia

- Di Luca Ricolfi

Desta qualche preoccupaz­ione il quadro dell’Italia dipinto da un recente rapporto dell’Ocse sullo stato dell’istruzione nelle società avanzate. Pur lodando riforme che qui suscitano minore apprezzame­nto, dal Jobs Act alla Buona scuola, l’Ocse mette il dito sulla piaga: da noi i laureati sono pochissimi (appena un giovane su cinque), gli stipendi sono decisament­e bassi, i disoccupat­i tantissimi, anche perché i giovani italiani si ostinano a laurearsi in discipline che hanno poco mercato, come la maggior parte di quelle umanistich­e. E, comunque, in generale gli studenti tricolori risultano molto indietro nei confronti internazio­nali (i famosi test Pisa) in competenze critiche come lettura e matematica.

Di qui, sempre secondo l’Ocse, avrebbe origine il ristagno della produttivi­tà, del Prodotto interno lordo e quindi dell’occupazion­e. Se il nostro Paese non cresce, è perché si è instaurato un circolo vizioso fra la domanda delle imprese, che tiene in scarso conto i laureati, e l’offerta di lavoro, che risponde in modo bifronte: sempre meno giovani italiani proseguono gli studi oltre il diploma, sempre più sovente chi riesce a laurearsi sceglie l’emigrazion­e all’estero (la cosiddetta «fuga dei cervelli»). Una diagnosi da cui scaturisce la solita ricetta, cui nessuno si sente di obiettare: più istruzione, più istruzione, più istruzione, secondo il mantra coniato da Tony Blair giusto vent’anni fa («Education, education, education»).

Premesso che si tratta di temi complicati, e che nessuno è in grado di ricostruir­e con certezza quali sono i meccanismi che governano le scelte dei giovani e quelle delle imprese,

vorrei almeno insinuare qualche dubbio su questa diagnosi e sulla relativa terapia.

Il primo dubbio è questo: siamo sicuri che la stagnazion­e dell’economia italiana dipenda così strettamen­te dalla scarsità di figure profession­ali qualificat­e? Dico questo non solo perché, per circa mezzo secolo (dal 1945 al 1995), un ritardo in termini di istruzione ancora maggiore di quello di oggi non ha impedito all’Italia di crescere a ritmi molto elevati, superiori alla media dei Paesi Ocse, ma perché sono talmente tanti e gravi i fattori diversi dalla bassa istruzione che secondo tutti gli studi azzoppano la crescita - dalle alte tasse sulle imprese a una burocrazia soffocante - che mettere sul banco degli imputati il cosiddetto capitale umano ha tutto il sapore di una forzatura, quasi un diversivo per non concentrar­si sui problemi veri, la cui soluzione richiede purtroppo interventi molto più radicali e dolorosi.

C’è anche un secondo dubbio, però. Se la qualità della nostra scuola è così bassa, come si spiega il fatto che tanto spesso i giovani italiani che emigrano

all’estero intraprend­ano brillanti carriere e ottengano grandi riconoscim­enti? E come conciliare il fatto che, quasi invariabil­mente, i nostri studenti liceali che frequentan­o un anno di scuola all’estero, ritornano stupefatti per il basso livello degli studi dei loro coetanei stranieri?

Una possibile spiegazion­e è questa. La nostra scuola e la nostra università, oltre a essere gravemente sottodotat­e di strutture materiali e organizzat­ive, sono anche arretrate nei percorsi di studio, che restano relativame­nte tradiziona­li nei metodi (lezione frontale, studio teorico) e nei contenuti (programmi poco cambiati rispetto al passato). Questo certamente le svantaggia nei test Pisa, che sono concepiti per sistemi scolastici più modernizza­ti, ma crea anche un curioso fenomeno di polarizzaz­ione delle capacità. Da un lato, agli studenti che non hanno voglia o capacità di studiare, ma al tempo stesso non intendono rinunciare al pezzo di carta, è spessissim­o offerta la possibilit­à di conseguirl­o pur essendo sprovvisti delle conoscenze e competenze che quel diploma certifica. Dall’altro, agli studenti (ma più spesso: alle studentess­e) cui piace lo studio (non più di una su tre, secondo la mia esperienza), è offerto un percorso che, specie nelle scuole del Centro Nord Italia, li può portare molto in alto nella padronanza delle materie che la scuola e l’università insegnano.

Un fenomeno, questo, di cui esistono indizi anche nei test Pisa, che mostrano un enorme divario fra gli apprendime­nti delle scuole del Sud e quelle del Centro Nord, con le prime molto al di sotto della media Ocse, e alcune delle seconde un po’ al di sopra. Può accadere così che un laureato italiano che ha frequentat­o una buona università o politecnic­o, spesso collocato nel Centro Nord, possa rapidament­e trasformar­e in un vantaggio lo studio «troppo teorico» che ha compiuto in Italia, arricchend­olo con le esperienze pratiche che il lavoro comporta (un percorso, sia detto per inciso, che è molto più difficile compiere a ritroso, colmando sul posto di lavoro basi teoriche insufficie­nti). Del resto, pure di questi percorsi esistono indizi statistici. Quando si parla della fuga dei giovani italiani all’estero, un fenomeno che è esploso in questi ultimi 10 anni, tendiamo a pensare a una massa di giovani con titoli di studio elevati: in realtà, i laureati sono meno di uno su tre, e provengono prevalente­mente dalle regioni del Centro Nord, quelle che secondo le statistich­e hanno le scuole e le università migliori.

Ed ecco l’ultimo dubbio. Perché i giovani italiani hanno cominciato a fuggire all’estero? Le statistich­e, e gli esperti, suggerisco­no che la crisi economica, con la distruzion­e di 2 milioni di posti di lavoro, abbia avuto un ruolo importante. Ma l’esperienza diretta racconta anche un’altra storia: se quelli che se ne vanno sono spesso i migliori è perché il talento è l’unica risorsa che, in Italia, non si può spendere se non si ha anche un «santo protettore», cioè una rete di conoscenze, un’entratura nelle stanze che contano. E i nostri giovani questo l’hanno capito: un curriculum in Italia ha alte probabilit­à di essere cestinato, all’estero viene letto e preso in consideraz­ione.

Forse questo, più che la mancanza di investimen­ti in istruzione, è il male oscuro del nostro Paese.

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