IL TRIANGOLO D’ORO, DOVE LA VIOLENZA NON ARRIVA
Roberto Lenzi (in camicia azzurra), proprietario del Cristal Bay Resort a Watamu, e il padre Remo. Le tensioni delle grandi città rimbalzano smorzate nel «triangolo d’oro» della costa orientale: Watamu-MalindiKilifi. Chilometri di candida spiaggia e di mare incontaminato. Sono i «Caraibi d’ Africa», baciati dalla natura, dove la convivenza con i bianchi, imprenditori e albergatori, residenti e proprietari di case, o semplici turisti, si è consolidata nel tempo. Dopo l’epopea imperiale degli inglesi, dalla fine degli anni 60 giunsero gli italiani, da mezzo secolo una folta comunità. Prima nell’antica, fascinosa Malindi, a lungo prescelta dall’élite mondiale: i principi d’ Asburgo, Farah Diba, Richard Burton, Ernest Hemingway, che qui scrisse e soggiornò. Il pioniere dei nostri connazionali è l’entusiasta Franco Esposito, napoletano, 78 anni, cittadino kenyota dal 2003 e due volte candidato al Parlamento di Nairobi. «Nel 2006-2007 gli italiani arrivarono a essere 100 mila» racconta Freddie Del Curatolo, milanese, folgorato dal mal d’Africa, fondatore e direttore del portale MalindiKenya.net. «Ora siamo scesi a 20 mila. Conseguenza degli eventi politici di questo Paese e di una cattiva, penalizzante informazione». Negli ultimi vent’anni si è affermata la «perla» Watamu, scoperta al limitare degli anni 70. «Era poco più che un’immensa palude di coccodrilli» ricorda il romano Remo Lenzi, un «giovanotto» di 88 anni, che immaginò subito che cosa sarebbe potuta diventare. E vide giusto: ora qui sorgono il Crystal Bay Resort e il Seven Islands. «Noi italiani diamo lavoro a migliaia di africani» aggiunge il figlio Roberto. «Siamo una sorta di Lampedusa d’ Africa affacciata sull’oceano Indiano: offriamo opportunità capaci di frenare le migrazioni, ma non siamo aiutati, ci sentiamo soli, e la nostra stampa si sofferma solo sugli aspetti meno lusinghieri del Kenya. Noi crediamo in questo paese e nel 2017 il turismo è tornato a premiarci. Abbiamo stretto i denti, ma ce l’abbiamo fatta». (G.M.) ambasciatori occidentali, i quali, naturalmente, non lo ammetterebbero mai davanti a una telecamera o a un taccuino. Perché Kenyatta, pur tra le immutabili lentezze e l’endemica corruzione degli apparati statali africani, ha compiuto una netta scelta di campo, non facile in una nazione tanto marcatamente interetnica, interreligiosa e interculturale: economia di mercato (un prodotto interno lordo che, quest’anno, sta superando il muro del più 7 per cento), convinta apertura agli investimenti stranieri, impulso alle infrastrutture e al turismo della costa, lotta tenace al terrorismo islamico (mille minacciosi focolai, soprattutto a ridosso degli insidiosi confini con Somalia e Nigeria), uno stato rigorosamente non confessionale, dove tutte le fedi hanno pari dignità e possono essere liberamente praticate nel reciproco rispetto.
Su queste solide basi Kenyatta, esponente di una delle famiglie più illustri e antiche del Kenya, si è guadagnato il sostegno degli americani, dell’Europa e di Israele, riuscendo nel contempo a mantenere buoni rapporti con Mosca, Pechino e New Delhi.
Naturalmente la modernizzazione porta con sé salati costi sociali e «buchi neri». Non sono migliorati i destini delle fasce più deboli della popolazione, il divario tra ricchi e poveri si è accresciuto, il reddito medio pro-capite annaspa miseramente attorno ai 1.500 dollari l’anno, scuola e salute pesano troppo sui risicati bilanci di milioni di famiglie, il welfare è poco più di un miraggio, la lotta al sistema della corruzione è stata più di facciata che di sostanza. Tutti dolorosi argomenti su cui fa confusamente leva l’opposizione, che alza la voce senza avere la capacità di indicare un credibile modello alternativo di sviluppo.
«Anche Odinga mi ha deluso» dice sommessamente, tra una comanda e l’altra, Richard, 21anni, un ragazzo gentile, gli occhiali da miope, cameriere in un bar del centro di Nairobi. «Ormai lui eccita la gente solo per strappare in extremis una fetta di potere. “Datemi qualcosa e me ne starò buono”: questa è la sua tattica, anzi il suo ricatto politico. No, non mi piace. Ma non mi piace nemmeno Kenyatta, che non premia chi merita. Vorrei studiare medicina all’Università. Ma chi mi aiuta?». Richard abbassa gli occhi e se ne va, rispondendo al cenno di un altro cliente.