Panorama

La mia tromba umile

Nonostante sia un’eccellenza assoluta del jazz, Fabrizio Bosso suona con ugual passione sia nei concerti super affollati a New York e Seul, sia nei piccoli club. Ora arriva il nuovo album. Lo ha registrato d’impulso, in un solo giorno.

- Di Gianni Poglio Christmas Baby, Merry (uno dei più grandi sassofonis­ti italiani di sempre, morto a 78 anni nel 2009,

Un intero disco registrato in un solo giorno: succede solo ai grandi artisti, quelli che sanno suonare per davvero e che all’arte della musica hanno dedicato una vita. Fabrizio Bosso, 44 anni, uno dei migliori trombettis­ti in circolazio­ne, è un’eccellenza italiana del jazz nel mondo. Il suono della sua tromba ha estimatori a New York, a Londra, ma anche a Bogotà, a Tokyo e persino in Corea del Sud. Migliaia di concerti e centinaia di incisioni sono il suo curriculum che, a fine novembre, si arricchirà di un nuovo album, questa volta natalizio:

registrato, per l’appunto, in meno di ventiquatt­r’ore.

Puntava a stabilire un record?

No. Il punto è che io e il mio Quartet siamo talmente uniti e affiatati da poter entrare in sala d’incisione al mattino ed uscire alla sera con un disco pronto. Il sogno di ogni discografi­co...

Quanto vale oggi la scuola jazz italiana nel mondo?

Tanto. Sono migliorate sia le scuole private sia i conservato­ri. Il livello tecnico dei giovani si è alzato, oggi si può anche studiare via Skype prendendo lezioni dai migliori strumentis­ti del mondo. Ai gloriosi tempi di Gianni Basso ndr), per imparare una parte, i musicisti ascoltavan­o furtivamen­te le registrazi­oni

custodite negli archivi Rai o addirittur­a imparavano a memoria i brani ascoltando­li alla radio. Oggi, è tutto accessibil­e con un clic.

Che cosa serve per fare di un ottimo musicista un profession­ista?

Contano molto le relazioni sociali, saper stare in mezzo ai colleghi. Suonare bene è solo una parte del mestiere. Ci sono decine di giovani jazzisti talentuosi in Italia, ragazzi che hanno già fatto concerti e incisioni importanti. Peccato che poi diventino spocchiosi quando si trovano a lavorare in situazioni che non sono il top. Un errore: nel jazz conta soprattutt­o l’umiltà, un giorno suoni davanti a diecimila persone e quello dopo in un club con venti spettatori. A lei è successo? Due settimane fa in Corea del Sud. Il giorno dopo uno show davanti a trentacinq­uemila persone, io e i ragazzi della band siamo andati in un piccolo club ad ascoltare un gruppo locale. Il proprietar­io ci ha riconosciu­to e ci ha chiesto di suonare qualcosa: siamo andati sul palco e ci siamo divertiti come matti davanti a cinque spettatori. Ecco, nel jazz, più che in altri generi, vale la regola del «fly down...».

La storia del jazz è costellata di intuizioni fulminanti, minuti di musica in cui un artista, improvvi- sando, ha creato qualcosa di unico e inimitabil­e, che non si era mai sentito prima. Tra questi «magic moment» qual è il suo preferito?

Il giorno prima di morire in un incidente stradale, Clifford Brown (leggendari­o

trombettis­ta americano, ndr) regalò al mondo una versione straordina­ria di un brano di Dizzy Gillespie, A Night

in Tunisia. Brown fece diciassett­e giri di improvvisa­zione, un assolo interminab­ile e sconvolgen­te. Ho la trascrizio­ne nota per nota di quel lampo di genio, ma è inavvicina­bile, quasi impossibil­e da suonare.

I giganti del jazz, quelli del secolo scorso, hanno avuto carriere straodinar­ie e vite devastate dalle dipendenze. Un connubio che allora sembrava inevitabil­e.

Le nuove generazion­i non sono così. Allora, sembrava che per suonare bene ed essere creativi bisognasse per forza «viaggiare» con droghe o superalcol­ici. Penso a Charlie Parker o a John Coltrane e al loro rapporto morboso con l’eroina e l’alcol. Questi artisti avevano creato una sorta di mitologia intorno al loro dark side e alla creatività figlia delle alterazion­i chimiche. Io, però, sono convinto che sarebbero stati geniali anche se non si fossero «massacrati». Anzi, magari avremmo potuto goderceli per qualche anno in più.

Resta un mistero come facessero a salire sul palco e a regalare esibizioni indimentic­abili in quelle condizioni.

Non ci sono spiegazion­i razionali, anche perché gli strumenti a fiato richiedono uno sforzo fisico e mentale pazzesco. Chi ha avuto la fortuna di suonare con loro racconta di artisti letteralme­nte annientati in camerino che «risorgevan­o» ogni sera sul palco offrendo performanc­e eccezional­i Davvero non so come facessero. Altri tempi, altri fisici...

 ??  ?? OMAGGIO A GILLESPIE Fabrizio Bosso è nato a Torino il 5 novembre 1973. Il trombettis­ta si esibirà il 18 novembre all’Unicredit Pavilion di Milano in un concertoom­aggio a Dizzy Gillespie.
OMAGGIO A GILLESPIE Fabrizio Bosso è nato a Torino il 5 novembre 1973. Il trombettis­ta si esibirà il 18 novembre all’Unicredit Pavilion di Milano in un concertoom­aggio a Dizzy Gillespie.

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