La mia tromba umile
Nonostante sia un’eccellenza assoluta del jazz, Fabrizio Bosso suona con ugual passione sia nei concerti super affollati a New York e Seul, sia nei piccoli club. Ora arriva il nuovo album. Lo ha registrato d’impulso, in un solo giorno.
Un intero disco registrato in un solo giorno: succede solo ai grandi artisti, quelli che sanno suonare per davvero e che all’arte della musica hanno dedicato una vita. Fabrizio Bosso, 44 anni, uno dei migliori trombettisti in circolazione, è un’eccellenza italiana del jazz nel mondo. Il suono della sua tromba ha estimatori a New York, a Londra, ma anche a Bogotà, a Tokyo e persino in Corea del Sud. Migliaia di concerti e centinaia di incisioni sono il suo curriculum che, a fine novembre, si arricchirà di un nuovo album, questa volta natalizio:
registrato, per l’appunto, in meno di ventiquattr’ore.
Puntava a stabilire un record?
No. Il punto è che io e il mio Quartet siamo talmente uniti e affiatati da poter entrare in sala d’incisione al mattino ed uscire alla sera con un disco pronto. Il sogno di ogni discografico...
Quanto vale oggi la scuola jazz italiana nel mondo?
Tanto. Sono migliorate sia le scuole private sia i conservatori. Il livello tecnico dei giovani si è alzato, oggi si può anche studiare via Skype prendendo lezioni dai migliori strumentisti del mondo. Ai gloriosi tempi di Gianni Basso ndr), per imparare una parte, i musicisti ascoltavano furtivamente le registrazioni
custodite negli archivi Rai o addirittura imparavano a memoria i brani ascoltandoli alla radio. Oggi, è tutto accessibile con un clic.
Che cosa serve per fare di un ottimo musicista un professionista?
Contano molto le relazioni sociali, saper stare in mezzo ai colleghi. Suonare bene è solo una parte del mestiere. Ci sono decine di giovani jazzisti talentuosi in Italia, ragazzi che hanno già fatto concerti e incisioni importanti. Peccato che poi diventino spocchiosi quando si trovano a lavorare in situazioni che non sono il top. Un errore: nel jazz conta soprattutto l’umiltà, un giorno suoni davanti a diecimila persone e quello dopo in un club con venti spettatori. A lei è successo? Due settimane fa in Corea del Sud. Il giorno dopo uno show davanti a trentacinquemila persone, io e i ragazzi della band siamo andati in un piccolo club ad ascoltare un gruppo locale. Il proprietario ci ha riconosciuto e ci ha chiesto di suonare qualcosa: siamo andati sul palco e ci siamo divertiti come matti davanti a cinque spettatori. Ecco, nel jazz, più che in altri generi, vale la regola del «fly down...».
La storia del jazz è costellata di intuizioni fulminanti, minuti di musica in cui un artista, improvvi- sando, ha creato qualcosa di unico e inimitabile, che non si era mai sentito prima. Tra questi «magic moment» qual è il suo preferito?
Il giorno prima di morire in un incidente stradale, Clifford Brown (leggendario
trombettista americano, ndr) regalò al mondo una versione straordinaria di un brano di Dizzy Gillespie, A Night
in Tunisia. Brown fece diciassette giri di improvvisazione, un assolo interminabile e sconvolgente. Ho la trascrizione nota per nota di quel lampo di genio, ma è inavvicinabile, quasi impossibile da suonare.
I giganti del jazz, quelli del secolo scorso, hanno avuto carriere straodinarie e vite devastate dalle dipendenze. Un connubio che allora sembrava inevitabile.
Le nuove generazioni non sono così. Allora, sembrava che per suonare bene ed essere creativi bisognasse per forza «viaggiare» con droghe o superalcolici. Penso a Charlie Parker o a John Coltrane e al loro rapporto morboso con l’eroina e l’alcol. Questi artisti avevano creato una sorta di mitologia intorno al loro dark side e alla creatività figlia delle alterazioni chimiche. Io, però, sono convinto che sarebbero stati geniali anche se non si fossero «massacrati». Anzi, magari avremmo potuto goderceli per qualche anno in più.
Resta un mistero come facessero a salire sul palco e a regalare esibizioni indimenticabili in quelle condizioni.
Non ci sono spiegazioni razionali, anche perché gli strumenti a fiato richiedono uno sforzo fisico e mentale pazzesco. Chi ha avuto la fortuna di suonare con loro racconta di artisti letteralmente annientati in camerino che «risorgevano» ogni sera sul palco offrendo performance eccezionali Davvero non so come facessero. Altri tempi, altri fisici...