Panorama

I DELEGATI

- Di Giorgio Mulè

Il titolo di questo editoriale, come si conviene alle regole del giornalism­o, sintetizza un ragionamen­to più ampio. Perché «I delegati»? Il riferiment­o è a Pietro Grasso, non alla persona degnissima che è, ci mancherebb­e, ma al suo impegno politico. Al neo leader di Mdp, cioè; partito che sceglie un magistrato in pensione come guida e bandiera. A scanso di equivoci: nei confronti dei magistrati non nutro un pregiudizi­o. Ma la sacralità della funzione di chi indossa la toga definita nell’obbligator­ietà di essere terzo e dunque distaccato dall’adesione a una parte rispetto a un’altra mi appare come un ostacolo insormonta­bile: chi fa o ha fatto il magistrato non dovrebbe mai fare politica, né durante né dopo aver smesso di fare questo lavoro. E ciò perché le convinzion­i espresse in politica, necessaria­mente legate a scegliere una parte, portano legittimam­ente il cittadino a pensare che durante la sua attività da magistrato possa avere agito senza quella terzietà che è invece pre-condizione per essere credibile come giudice. Se un partito di sinistra scommette sulla figura di un magistrato per definire la propria identità, annota con arguzia Giuliano Ferrara, il senso è uno solo: «Quando sul riformismo non hai nulla da dire non hai altra scelta che buttarti sul moralismo». Andrei oltre e farei un passo indietro. Il tic di «coprirsi» con la toga è un vizio antico della politica. Solo per stare nella seconda repubblica e guardando a sinistra e a destra, tornano in mente i nomi di Antonio Di Pietro o dell’allora procurator­e aggiunto di Milano, Gerardo D’Ambrosio, o del pm Tiziana Parenti tanto per rimanere nel recinto di Mani pulite. A che servirono queste personalit­à rese famose dalle loro indagini se non a garantire i partiti che li vollero da attacchi esterni sul tema della legalità? Furono scudi di protezione come lo è, oggi, Pietro Grasso: chi si sognerà mai di attaccarlo? Terrorizza­ta dagli avvisi di garanzia e dalla necessità di esporre un marchio di pulizia al momento giusto, la politica dimostra di ripetere l’errore madornale di non sapere esprimere una classe dirigente e di sapere essere solo subalterna alla magistratu­ra. Così i 5 Stelle occhieggia­no a Piercamill­o Davigo o indicano fin da ora come eventuale ministro il pm Nino Di Matteo, che tra una cittadinan­za onoraria e un’altra cerca consensi attorno all’inconsiste­nte tesi d’accusa del «suo» processo sulla trattativa Stato-mafia; così lo stesso Mdp di Grasso corteggia l’ex procurator­e nazionale antimafia Franco Roberti. E il Pd tenta da anni, prima come sindaco di Napoli e poi al Parlamento, di arruolare Raffaele Cantone nel frattempo gratificat­o dalla autorevoli­ssima poltrona di presidente dell’Autorità nazionale anticorruz­ione. Un affetto così profondo da farlo esporre come un trofeo dal premier che lo nominò, cioè Matteo Renzi, all’ultima cena ufficiale di Barack Obama alla Casa Bianca. A questo punto fatevi una domanda: può la politica assumersi da sola la responsabi­lità di governare un Paese e per giunta sopravvive­re bene senza ricorrere a un magistrato in servizio o in pensione? Date un’occhiata a chi è al governo negli Stati Uniti, in Francia, Germania o nel Regno Unito. Tranquilli, se po’ fa’…

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